Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 21 Mercoledì calendario

Yoko Ono in mostra


LONDRA – “Pronto? Sono Yoko!”. È la voce che vi accoglierà in questa mostra, da una vecchissima segreteria telefonica dell’artista. Poi, nella prima sala, si sente scorrere lo sciacquone del water. E, in un’altra dopo, c’è il corto Film No. 4 (Bottoms), censurato nel 1966 ma che oggi invece mostra i beati “close-up” di fondoschiena di uomini e donne. Che camminano, liberamente, sperando un futuro migliore. No, Music of the mind non vuole essere sconvolgente. Ma è la mostra più grande di sempre di Yoko Ono in territorio britannico, fino all’1 settembre alla Tate Modern di Londra. In queste stanze c’è esposto tutto il mondo della artista, musicista e attivista giapponese, 91 anni appena compiuti, con opere che incarnano la sua evoluzione ma anche, ovviamente, il rapporto con John Lennon.
Genio dell’avanguardia o ciarlatana con stile? Yoko Ono si è sempre dovuta destreggiare tra queste due correnti, a maggior ragione quando venne etichettata come “femme fatale” una volta che il “suo” Lennon abbandonò i Beatles. Di certo, questa è una retrospettiva totale su Ono, con eccellenze, purismi e opere bizzarre, che sintetizzano il suo approccio concettuale ma interattivo con gli spettatori, minimalista ma radicale. Con l’aspirazione di liberare l’arte da se stessa. Un impegno assunto agli inizi della sua carriera a Tokyo, tra neo-dadaismo e il movimento “Fluxus” creato dal suo “compare” George Maciunas.
Music of the mind raccoglie duecento opere d’arte, musicali, film e fotografie di Yoko Ono da oltre 70 anni a questa parte, con particolare attenzione alla sua permanenza londinese dal 1966 a inizio anni Settanta. Ovvero quando conobbe Lennon, dopo le sperimentazioni a New York con La Monte Young e la musica atonale con John Cage e David Tudor. Arte partecipativa quella di Ono, tanto che i visitatori sono invitati a entrare in un sacco da campeggio (“Bag Piece”) o a lasciare foto delle proprie madri in uno dei tanti lavori benedetti da “instructions” dell’artista. Ma c’è anche il filmato dell’opera Cut Piece del 1964, dove gli spettatori sono invitati a tagliare con un coltello i vestiti di Yoko Ono, anticipando di cinque anni le performance, ben più brutali, di Marina Abramovic con Rhythm O.
Poi c’è il viscerale femminismo di Ono, come in FLY 1970-1 (titolo del suo secondo album) in cui una mosca si posa sul corpo di una donna nuda, oltre a Freedom 1970, dove l’artista non riesce a togliersi il reggiseno, mentre risuonano le sue canzoni Sisters O Sisters, Woman Power e Rising. E poi troviamo il simbolismo del cielo, cruciale nei lavoro di Ono, perché è la metafora della pace, della libertà e dell’infinito. Come in Helmets (Pieces of Sky), dove pezzetti di cielo sono su elmetti da guerra nazisti che scendono dal cielo.

Qui si giunge al messaggio più attuale di Yoko Ono: la voglia e la necessità di pace nel mondo. Ed ecco quindi Acorns for Peace del 1969, quando lei e Lennon mandarono ghiande pacifiste ai leader del mondo. Oppure i manifesti War is over! (If you want it) dello stesso anno a New York e altre città, per dire che “la guerra finisce, se lo volete”, le registrazioni dei Bed Peace ad Amsterdam e Montreal a letto con John. Fino alle installazioni artistiche di una stanza mozzata a metà dalla disperazione (Half-a-Room del 1967) e White Chess Set: dove la scacchiera e gli scacchi sono tutti bianchi, e nemici e alleati si confondono inevitabilmente. Mentre scorrono immagini e note di John Lennon, Yoko Ono e compagni che cantano appassionatamente: “All we are saying is give peace a chance”.