Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 11 Domenica calendario

Intervista a Egea Haffner


«I l mio povero papà avrebbe compiuto 26 anni il 17 maggio 1945 e non aveva nessuna colpa: non era mai stato iscritto al partito fascista, non aveva fatto del male a nessuno e, come gli altri, lo hanno fatto sparire. La cultura italiana ha sempre valutato, giustamente, la Shoah; ma la nostra tragedia è stata messa in secondo piano». C’è amarezza nelle parole di Egea Haffner, per molti il volto di un’immagine che condensa la tragedia delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata.
La testimone della Storia, oggi 82enne, era una bambina il 6 luglio 1946, quando il fotografo di famiglia la ritrasse nel giardino di casa, a Pola, con il vestito della festa e la scritta «Esule giuliana n° 30001» sulla valigia. Quell’immagine, divenuta locandina della prima mostra italiana sulle atrocità compiute dai titini, è la foto simbolo dell’esodo e la copertina del libro La bambina con la valigia in cui Gigliola Alvisi ha raccolto le sue memorie. Raggiunta a Rovereto, dove vive, Egea Haffner racconta un’infanzia spezzata.
«Avevo solo tre anni e mezzo. Due partigiani di Tito vennero a prendere mio padre a casa: da quel giorno di lui non si seppe più nulla. Poco dopo quasi tutti fuggirono e noi lasciammo Pola. Ricordo i bombardamenti: papà mi prendeva per il braccio e correvamo verso i rifugi, umidi e bagnati, mentre tutti urlavano».
Suo padre, figlio di un gioielliere ungherese, sarebbe stato infoibato quella stessa notte, inghiottito da una fenditura nel Carso. Perché lui?
«Per i titini tutti gli italiani erano fascisti, anche se spesso erano semplici cittadini o partigiani antifascisti che avevano combattuto contro i tedeschi. L’unica loro colpa era essere italiani. Furono molte le persone prelevate e fatte sparire. Come noi, molte famiglie non ebbero diritto alla verità».
Lei porta nelle scuole la storia della sua famiglia. Si dice che se ne trarrà una fiction.
Vennero a prenderlo in due, io avevo tre anni e mezzo. Non era mai stato iscritto al partito fascista. Da quel giorno di mio padre non si seppe più niente
«Sì, la Rai ne farà una serie televisiva. Finalmente la nostra storia è stata ritrovata, ma per troppo tempo noi esuli siamo rimasti indietro, al buio. Da gente dignitosa, vogliamo almeno far conoscere la nostra tragedia».
A Roma ha incontrato il presidente Mattarella e lo scorso anno, all’Ariston, Amadeus ha letto le pagine del romanzo sul blitz per prelevare suo padre Kurt. Dopo essere fuggite a Cagliari, lei e sua madre arrivaste a Bolzano. Come vi accolsero?
«È stata dura: eravamo senza casa, dormivamo in negozio e andavamo a lavarci in una pensione. Tutti mi trattavano come una profuga. La condizione di esule ti fa sentire straniero, inadeguato. A Pola eravamo benestanti, ma in Alto Adige eravamo quelli che rubavano il lavoro alla gente del posto. Un atteggiamento che oggi rivedo verso i migranti: nei drammi umanitari di origine politica è sempre la povera gente a pagare».
Con il tempo, è riuscita a costruirsi una vita normale?
«Non è stato indolore. Avevo perso tutto: le mie radici, i miei affetti. La mia famiglia si era dispersa, ma io ho avuto almeno la fortuna di non aver conosciuto il campo profughi. Oggi i giovani scoprono con i miei occhi quello che è accaduto e mi emoziono sempre. Dimenticare non si può, però io guardo al futuro con speranza: tocca a loro tramandare questa eredità».