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 2023  settembre 27 Mercoledì calendario

L’addio a Napolitano

Strano funerale, senza bara, senza preti, senza chiesa, senza popolo: deserta piazza Capranica con il maxischermo, un centinaio di persone davanti a quello di piazza del Parlamento.


Popolo tenuto lontano non tanto dalla proverbiale indifferenza romana quanto dallo spiegamento di forze: poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari, vigili, agenti in borghese, in un trionfo di sirene e transenne che da tempo hanno preso il posto della lupa e dell’aquila come simbolo della Capitale.
Sulla soglia di Montecitorio si allunga la fila dei notabili vestiti a lutto, ripresi con il telefonino dai turisti incuriositi in sandali e bermuda. D’Alema ripete l’aneddoto di Napolitano presidente della Camera che lo rimanda a casa a cambiarsi – «il commesso mi portò un biglietto, c’era scritto: il capo del maggiore gruppo di opposizione non può presentarsi così» – e aggiunge: «Napolitano tenne l’orazione funebre di mio padre. Io non sono mai stato amendoliano; ma mio padre sì».
Il fantasma del comunismo si aggira sulla cerimonia laica, e resterà a lungo un non detto, almeno fino all’intervento di Anna Finocchiaro: «Napolitano scelse il Pci perché era il partito che aveva combattuto più duramente il fascismo, e perché si mescolava con il popolo».
La chiesa di Napolitano è il Parlamento, la Camera dei deputati, dove iniziò la sua vita pubblica nel 1953, a ventotto anni, e dove la chiude ora, a novantotto. L’ultima volta che lo si era visto qui a Montecitorio fu dopo la rielezione, la prima nella storia repubblicana, dieci anni fa. Napolitano tenne un discorso durissimo, in cui strigliò i parlamentari, quasi diede loro degli incapaci, e li esortò a fare le riforme per rendere il sistema più efficiente e più vicino ai cittadini. Il fallimento non potrebbe essere più totale; ma è tutto di chi è seduto sugli scranni, non di chi è chiuso nel feretro. Con l’aggravante che chi è venuto dopo, dall’invasione grillina in poi, non ha finora trovato soluzioni.
Nell’emiciclo non ci sono solo parlamentari, ma amici di famiglia, uomini di cultura, crocerossine, partigiane, più militari in alta uniforme curiosamente collocati all’estrema sinistra, tra cui spicca tutto bianco il comandante De Falco, quello che invitò sbrigativamente Schettino a risalire a bordo. Poca destra, quasi tutta sui banchi del governo. Si rivedono volti dimenticati: Quagliariello, Vincenzo Visco che a molti fa pensare alla dichiarazione dei redditi, Occhetto, Silvia Costa e il mitico Alessandro Bianchi, ministro cossuttiano ai Trasporti nel governo Ciampi, con capelli lunghi sul collo. Ognuno cerca un amico con cui far passare il tempo, Schlein conversa con Landini, Teresa Bellanova non rinuncia ai suoi colori sgargianti, unica nota di arancione e viola in un’aula scura. Arriva Liliana Segre, c’è anche Giuliano Ferrara. Nessuno vuole sedersi vicino a Soumahoro.
Capannello di ex premier, in Italia categoria più numerosa dei metalmeccanici: Prodi, Conte, Letta, D’Alema, Monti, Amato, Gentiloni… Renzi arriverà a mezzogiorno meno dieci, abbronzatissimo. Alle 11 appare sullo schermo il feretro coperto dal tricolore, risuonano le note dell’inno, ci si alza in piedi e nessuno osa sedersi: passano così venti minuti di silenzio e imbarazzo. Si vede Macron in gilet chinarsi quasi fino a baciare le mani a Clio Napolitano, da giorni a fianco del marito pur con la bombola d’ossigeno. In tribuna ci sono gli agenti della scorta del Quirinale, i migliori d’Italia, gli stessi dai tempi di Ciampi, che a tutti aveva dato la stessa istruzione: «Non siate mai scortesi con i cittadini».
Ora i capi di Stato stranieri entrano in Aula: l’ex presidente francese Hollande con l’andatura da «pinguino», titolo della canzone cattivella che gli ha dedicato Carla Bruni; poi Macron, che si gira a cercare con lo sguardo Mario Draghi, lo vede, lo saluta portandosi la mano sul cuore. Ecco Giorgia Meloni: vestita di nero pare ancora più piccolina, ma quando guadagna la sedia da premier tutti i suoi ministri – Pichetto Fratin, Urso, Crosetto, Piantedosi, Tajani – scattano in piedi per lasciarla passare.
I leader stranieri
Steinmeier con le cuffie per la traduzione
mentre il leader francese ne fa a meno
Parla per primo il presidente della Camera Fontana, emozionatissimo, e dà mano a Wikipedia: «Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita all’università di Napoli…». La Russa lo chiama Napoletano con la e ma almeno ci mette un po’ di cuore. Il presidente tedesco Steinmeier infila le cuffie per la traduzione; Macron ne fa a meno. Sgarbi deve aver fatto tardi ieri sera e si assopisce.
Parla Giulio Napolitano e sembra davvero di rivedere il padre: alto, asciutto, non una parola di troppo. Ma i tempi si fanno lunghi e sui banchi cominciano a vedersi i cellulari, spicca quello dell’ex ministra Fedeli, rosso acceso in tinta con gli occhiali e i capelli.
Sofia Napolitano, accompagnata dal fratello Simone, ricorda il nonno rigoroso e affettuoso, che le telefonava da bambina per segnalarle un cartone animato che le sarebbe potuto piacere – e qui la Meloni si volta per guardare in viso Sofia, mentre i suoi ministri restano con lo sguardo in avanti —, e da ragazza le indicava i libri e gli articoli utili per i suoi studi (ora si gira anche Salvini). Adesso sono tutti commossi: se a un funerale ognuno piange anche la propria morte questo è particolarmente vero per un ex capo dello Stato, vale per i parlamentari della sua generazione – Jas Gawronski e Franco Debenedetti, nel 1996 candidati della destra e della sinistra nel collegio Torino centro al Senato, siedono uno accanto all’altro – come per gli ospiti stranieri, compresa l’altezza reale duchessa di Edimburgo che il protocollo piazza accanto a Pina Picierno vicepresidente del Parlamento europeo.
Dopo la Finocchiaro parla Gianni Letta: ricorda Napolitano sulla Flaminia presidenziale con Berlusconi, immagina che i due nell’aldilà possano essersi parlati, chiariti. Un messaggio a destra: ma quale golpe. L’ex ministro Lupi tamburella con le mani, sotto i banchi cominciano frenetiche consultazioni dei cellulari. Il posto accanto a Soumahoro è rimasto vuoto.
Monsignor Ravasi cita Thomas Mann, Mozart, Beccaria e conclude con il profeta Daniele, capitolo 12, versetto 3: «“I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”. Questo è il fiore ideale che depongo sul feretro del presidente».
«Per la crisi Covid er calcio nun ha avuto un euro!» tuonerà nel Transatlantico Claudio Lotito, che è qui perché «tutta ’a famija Napolitano è daaa Lazio».
Amato evoca la morte del consigliere D’Ambrosio, le intercettazioni, il moto d’orgoglio di Napolitano – «fu stabilito che il presidente della Repubblica deve poter contare sull’assoluta riservatezza delle sue comunicazioni —»; segue Gentiloni sull’impegno europeista. Parte la suoneria di un cellulare, poi di un altro, il ritmo dei discorsi accelera.
La «chiesa»
La cerimonia laica
per un presidente che aveva come propria chiesa il Parlamento
Macron si ferma a salutare un giovane in sedia a rotelle: è lo storico Alessandro Acciavatti, autore di studi importanti sui rapporti tra Quirinale e Vaticano. Franco Carraro ricorda l’incontro con l’imperatore Hirohito all’Olimpiade di Tokyo 1964. Passano Giovanni Malagò e Luca Barbareschi. Ravasi e Sgarbi discutono se siano più tersi i cieli di Perugino, Piero della Francesca o Ercole de’ Roberti. Brando Benifei, capogruppo Pd all’Europarlamento, avanza con ciuffo ondeggiante tipo promoter di discoteca anni 80 che gli avrebbe provocato un biglietto di Napolitano più severo di quello per D’Alema. Nel Transatlantico passa ora il feretro, nessuno azzarda un segno della croce, non l’ha fatto neppure il Papa. Finocchiaro: «Giorgio ha dedicato la sua vita all’Italia, e a essa appartiene la sua memoria». Fuori, passanti in lacrime ma per l’assenza di taxi, oggi particolarmente introvabili. A Roma, anche quando cambia tutto, all’apparenza non cambia mai nulla.