Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 05 Martedì calendario

Risanare Napoli

Il crollo dell’Arco Borbonico a via Partenope ha scatenato il consueto e prevedibile teatrino di commenti indignati, i soliti alti lai degni della caduta, chessò, dell’Arco di Trionfo di Castel Nuovo, dell’Arco di Tito a Roma. Insomma, il siparietto di rito delle anime belle, con lo smartphone sempre pronto a caccia di like sui social. Domani, anzi già oggi, si passa a un altro tormentone e così via, senza che nulla cambi. A Napoli queste geremiadi sono l’unica consolidata forma di espressione dell’evanescente società civile, sempre pronta a puntare il dito e mai a scorciarsi le maniche.
Non che si voglia sminuire o ridicolizzare l’evento, ma si discute di una fogna, perché a questo era ridotto il rudere, per questo era chiamato comunemente ‘o Chiavicone. Era uno sbocco a mare di liquidi fecali e non più l’approdo di pescatori della logora oleografia un tanto al chilo. Era solo una reliquia, una scheggia, una scarda, dopo la costruzione della “litoranea” oltre un secolo fa, un insignificante graffio del passato, da decenni puntellato con un’orrida ringhiera preda degli invasivi catenacci dei tre-metri-sopra-il-cielo. Era ridotto a diffusore di olezzi disgustosi, roba da far stomacare chi passava accelerando il passo o chi si sedeva a una pizzeria del Lungomare esposta al vento nei giorni di flebile scirocco. Questo era: quattro lastre di pietra vulcanica corrosa a nascondere uno scarico a mare. Stava lì a subire gli insulti della salsedine e della gente, fino a quando Giove Pluvio e i cavalloni di Nettuno non hanno provveduto a dargli il colpo di grazia.
Invece di pensare a come far defluire al largo i prodotti degli sciacquoni di casa si pensa alla poesia. Ma questo è un vizio secolare dei napoletani, gente comune e amministratori appassionati delle inaugurazioni e refrattari alle minime forme di manutenzione. Via Partenope, dopo la mareggiata di fine anno, è a pezzi. Non si è mai lavorato seriamente per metterla in sicurezza (oltre che a renderla decente), neanche da quando è diventata una passeggiata attrezzata per i turisti (che prima o poi ritorneranno) e il fiore appassito all’occhiello della sindacatura uscente. Si è preferito il solito andazzo: rendering e interviste autocelebrative.
Ma c’è qualcosa di più inquietante da mettere in chiaro e che non riguarda solo la politica. Ed è il polveroso “carattere locale” abituato a suonare la grancassa guardando sempre e solo indietro, al passato, e andando, sempre e inevitabilmente, a sbattere. Napoli è la città dove trionfa la cultura antiquaria, quella sbeffeggiata da Nietzsche in “Utilità e danno della Storia”, quell’erudizione sfiatata e senza visioni che lascia che i morti seppelliscano i vivi. Imperversa una conventicola intellettuale perennemente pronta ad armarsi a gara “de’ maccheroni suoi, che a’ maccheroni anteposto il morir troppo le pesa”, per dirla con Leopardi. La sopportiamo da secoli: una piccola e media borghesia affetta da bovarismo, smaniosa di sedersi a un tavolo dove non ci sono mai i posti del torto, ma solo quelli del senso comune. Per loro Napoli è intoccabile. Tutto è prezioso, dal “vascio” (dove non vivono) alle fogne, dalle “scarrafunere” sbeffeggiate da Salvatore Di Giacomo ai palazzi fatiscenti, alle vie “arrepezzate” con sanpietrini e catrame. Tutto ha un valore centesimale da tutelare. Qui hanno battezzato Masaniello (va’ poi a sapere se è vero), qui il re Ferdinando veniva a giocare a carte, qui ha dormito Garibaldi, qui è nato il grande principe dell’avvocatura, qui viveva la zia del cognato del cocchiere della contessina di Panecuocolo. Insomma, guai a mettere mano alla “cocchiara” anche se poi, come è successo, vengono giù cornicioni e stemmi araldici, ammazzando i passanti.
Ci stiamo allontanando dall’Arco crollato? Sì, è vero, ma proprio questo è il punto: guardare oltre e avanti, mettere da parte il teleobiettivo e fotografare con il grandangolo. In altre metropoli non ci si straccia le vesti se viene abbattuto un vecchio palazzo. Forse a New York esagerano perché non restaurano quasi nulla. Se un edificio è a pezzi lo abbattono e al suo posto innalzano un nuovo grattacielo, possibilmente più ecologicamente attrezzato. A Berlino, grazie alla riunificazione, hanno recuperato tutta la vecchia città polverosa della zona Est, puntando talvolta troppo sulla gentrificazione, ma la capitale tedesca è da decenni urbanisticamente all’avanguardia. A Parigi, quando fu innalzata la Torre Eiffel (e doveva essere temporanea) ci fu un agguerrito drappello di intellettuali che protestò indignato, ma con il tempo quell’ammasso di ferraglia è diventato un’icona della Francia. Fermiamoci qui, per carità di patria, ma pensate pure a Barcellona, a Londra o anche solo a Milano.
A Napoli, invece, l’ultimo serio intervento urbanistico nel centro storico risale a oltre ottant’anni fa, quando il regime fascista mise mano al degradato quartiere San Giuseppe e ad altro. Chiamò il meglio degli architetti dell’epoca e fece realizzare quei monumenti del Razionalismo che sono la Posta Centrale, la Provincia, la Questura, il Banco di Napoli a via Toledo, la Stazione Marittima. Amanti del fetido colore locale, come il raffinato Jean-Paul Sartre, passeggiando da “ultimo turista” tra i cantieri, si indignò perché Napoli rischiava di somigliare a Milano. E magari. Per lui, parigino giramondo, era uno scandalo che al posto del lurido zoo umano, dove veniva a godersi lo spettacolo dei pezzenti rintanati nelle catapecchie, si costruissero case ed edifici accoglienti e che, alla faccia sua, sono finiti nei manuali di architettura.
Le città sono organismi vivi, destinate alla trasformazione. Non vanno museificate, mummificate. Pensate solo a come pesantemente intervennero gli Angioini nell’edilizia del tardo Medioevo. A come cacciarono via conventi e monasteri nell’area dove ora sorge il loro Maschio e spostarono l’asse della città verso la zona occidentale, fuori dai Decumani. Pensate al viceré Pedro di Toledo che fece realizzare la strada che porta ancora il suo nome. O agli stessi Borbone che, solo per dirne un paio, ridisegnarono l’attuale piazza del Plebiscito e piazza Dante. E Murat non esitò a sventrare parte del quartiere Stella per costruire la strada che portasse rapidamente alla Reggia di Capodimonte, evitando di impegolarsi attraverso la Sanità. Sfigurò purtroppo il chiostro della chiesa del Monacone, ma come si farebbe oggi se non ci fosse il Ponte a scavalcare il vallone? E gli interventi che sventrarono Napoli dopo il colera dell’Ottocento? Il Rettifilo, con tutti gli orrori di un risanamento speculativo, ha consegnato alla memoria delle stampe d’epoca tutto un mondo posticciamente pittoresco che nella realtà era fatto di vicoli puzzolenti, di tuguri e fondachi lerci dove hanno vissuto e sono morti migliaia di donne e di uomini che avrebbero meritato di più.
Ma quando in questa Napoli, piena più di fori che di pori, trapela l’idea di impugnare il piccone, i primi ad alzare scudi di parole sono proprio gli intellettuali antiquari napoletani. Ricordate le proteste quando fu rifatta la Villa Comunale, una ventina di anni fa? Non pensate a com’è ridotta oggi. Alcuni interventi non furono brillanti, altri dipendevano dal gusto, altri erano e restano discutibili. Al di là degli chalet dai colori disneyani, i custodi della “Napoli comm’era” si accanirono sull’inferriata e le luci a supposta. Non sono gradevoli, è vero, ma che cosa s’invocava in nome di una presunta e indefinita caratterizzazione storica del parco? Una ringhiera in stile Settecento, insomma un pezzotto cinese, un falso storico, una patacca. La Villa è un miscuglio di stili sovrapposti in trecento anni, con quel gioiello novecentesco della Casina nel Boschetto che risale al secondo dopoguerra e da vent’anni è consegnato al vandalismo. A compensare disastrosamente questo immobilismo, la città da tempo immemorabile è devastata da cantieri infiniti, spesso solo voraci crateri di denaro pubblico.
A Napoli, purtroppo, la Storia è ormai solo un randello da usare contro qualsiasi cambiamento, e allo stesso tempo è un fardello, come il fragile guscio di una lumaca, che ci trasciniamo dietro e ci costringe a procedere lentamente, lasciando dietro di noi solo una scia di bava, la nostra zella quotidiana.
Per fortuna, la Natura talvolta si ribella. E lavora per il futuro.
Pietro Treccagnoli