Corriere del Mezzogiorno, 23 gennaio 2021
Guai a chi tocca i martiri del 1799
Sono passati più di 220 anni e ancora l’intellighenzia napoletana e meridionale sembra non volersene fare una ragione. Guai a toccare i Martiri del 1799, i rivoluzionari della Repubblica Napoletana, le compiante vittime della spietata Santa Fede. Sono tra le figurine più resistenti della storia italiana, tirate fuori come l’alibi principe, l’asso pigliatutto del mancato sviluppo della città e del Sud. Oppure vanno iscritti di diritto alla omologante narrazione risorgimentale che li ha trasformati in precursori della identità nazionale. E con questo effetto ottico hanno indottrinato generazioni di scolari con una parabola storica lunga secoli, partita addirittura dai Vespri Siciliani del Duecento, quando una bagattella dinastica, una congiura accompagnata da una rivolta prematura, ridotta a melodramma, fecero scappare gli Angioini da Palermo per consegnarla a un altro straniero, il re d’Aragona. L’Italia allora non stava in testa neanche a Dante che era appena appena un adolescente invaghito di Beatrice e delle rime degli Stilnovisti.
Eppure sono passati più di due secoli e dopo l’ubriacatura del Bicentenario non s’è ancora alzata una seria voce critica verso quel manipolo di intellettuali lungimiranti verso il futuro e miopi di fronte alla realtà misera e lazzara nella quale erano immersi. Persino i neoborbonici, sempre attizzati a far revisionismo, li trattano quasi sempre con i guanti bianchi. In verità, la retorica di Donna Lionora è il contraltare della rinascita dello sterile culto verso la dinastia del Re Lazzarone. Gli sbandieratori del candido vessillo vedono nell’Unità d’Italia la più devastante sciagura per il Mezzogiorno e guai a nominargli Garibaldi, nemmanco come titolare della piazza della Ferrovia. I primi, invece, sono gli eterni orfani delle vittime delle esecuzioni di piazza Mercato, sempre allineati a condurre il gioco più facile: condannare il carnefice e darsi pugni in testa per quel nobile sangue versato.
C’è chi, da oltre un trentennio, periodicamente li piange come emblemi dell’armonia perduta e ne accarezza amorevolmente le effigi alla prima occasione che capita per spiegare come, decapitata della meglio gioventù, Napoli non ebbe più occasione per riprendersi. Come se da allora in poi all’ombra del Vesuvio non fosse più spuntato un acuto intellettuale, uno scienziato capace, un artista brillante, un economista accurato, un imprenditore intraprendente. Ce ne sono stati, eccome, non sempre all’altezza di una efficace competizione nazionale, è vero, ma Napoli non è stato un deserto. Come se, va aggiunto, non fossero venuti alla ribalta anche pessimi esemplari di meridionali, in politica, nella cultura, nella finanza che hanno contribuito pesantemente al disastro del Sud, a dimostrare quanto vacuo manicheismo e molesto piagnisteo ci sia nel j’accuse dei nostalgici della Napoli-Portici. Ai magnifici tavoli del saccheggio delle casse pubbliche in oltre 160 anni sono stati seduti tantissimi figli di Partenope e della Campania Felix.
Allora perché questa insistenza ormai logora sulla Repubblica? Perché è più facile adagiarsi nella filosofia di Calimero (“ce l’hanno tutti con noi perché siamo piccoli e neri, è un’ingiustizia, però”) che immaginare un futuro e lavorare per realizzarlo. Sarebbe pure ora di riporre in un dorato tabernacolo quella frattura, perché frattura è stata, come altre nei 2500 e passa anni delle vicende napoletane, e guardare avanti. I Martiri (sempre rigorosamente con la maiuscola), Eleonora Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Gennaro Serra di Cassano, l’ammiraglio Francesco Caracciolo, Luisa Sanfelice (una donna frivola, una sciacquetta diremmo a Napoli, che grazie al poderoso e bellissimo romanzone di Alexandre Dumas è assurta all’Olimpo delle eroine moderne) e altre decine di personaggi minori, appena fa comodo, sono portati in processione come busti sacri per piangerci addosso. Un rito autoflagellante per Martiri professionali, come cantava Francesco De Gregori.
Certo poi le ardue sentenze dei posteri (ma molto molto posteri: facciamo per comodità quelli di oltre mezzo secolo dopo), hanno dato in gran parte ragione alle vittime del boia borbonico. È che, però, quei nobili animi stavano così avanti che si sono ritrovati indietro, soli e prede sacrificali di un presente forse prosaico, ma reale, vero, a suo modo vitale e non ideologico e accucciato al più rudimentale giacobinismo d’importazione. Lo capì persino il loro sodale Vincenzo Cuoco, appena due o tre anni dopo i fatti, e lo scrisse chiaro e tondo nel suo “Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799”. Lo ha raccontato amaramente tra le righe persino Enzo Striano che già nel titolo del suo fortunato “Resto di niente” ha mostrato quanta velleità generosa ma inconcludente c’era nell’infatuazione poetica degli annoiati cadetti della nobiltà vesuviana. Va quindi ricordato che, forse forse, giudicando la Storia storicisticamente (come ci ha insegnato Benedetto Croce che però, per amor di Risorgimento, non ha applicato la propria lezione al 1799), i buoni Martiri, illusi e ingenui, a voler essere benevoli, stavano dalla parte degli invasori, erano sottomessi alle truppe francesi comandate dagli esosi Championnet (prima) e MacDonald (dopo), i quali, appena capirono la malaparata, dopo aver saccheggiato tutto quello che potevano saccheggiare ed essersi fatti consegnare tutto il trasportabile, li lasciarono in balia dell’incalzante armata del cardinale Fabrizio Ruffo.
E proprio sul bistrattato cardinale, una sorta di Garibaldi borbonico (concedeteci l’ossimoro), si è accanita nei secoli la storiografia partigiana, trattandolo da orco e non da imbattibile generale con la tonaca quale fu. Tanto che ancora oggi “sanfedista” è equiparabile a un insulto, poco più che becero reazionario codino. Sarebbe ora, invece, di dare a Ruffo quel che è di Ruffo. Sua Eminenza guidava un esercito raffazzonato, raccolto, di tappa in tappa, nella lunga risalita dalla Calabria, durante la quale compì numerose crudeltà e stragi efferate (ad Altamura, per esempio). Ma era una guerra e come in tutte le guerre alle truppe viene concesso il deprecabile beneficio del bottino.
In questo, è vero, fu fin troppo generoso. Ma lo fu anche con i vinti, con i Martiri. Prima di entrare in città, accampato al Ponte della Maddalena, sottoscrisse un patto con i residui capi della Repubblica: “Voi vi arrendete e io vi offro una nave con la quale potete andarvene nella vostra amata Francia, togliendovi dalle scatole”. Un patto onorevole e misericordioso. Ma gli fecero uno scherzo da prete. Ferdinando IV, ma soprattutto l’ammiraglio Horatio Nelson e la regina Maria Carolina, stracciarono l’accordo e condannarono tutti a morte. Ruffo non rimase a godersi lo spettacolo. Schifato dai sovrani che lui stesso aveva riportato su quel trono che sei mesi prima avevano abbandonato con una vergognosa fuga, se ne tornò a Roma a fare il prelato. Purtroppo nonostante l’abilità militare e la magnanimità il suo nome continua a essere inserito nell’elenco dei cattivi. Così quello della Rivoluzione del 1799 è uno dei rari casi in cui la Storia la scrivono i vinti che si beano della sconfitta.
Pietro Treccagnoli