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 2023  giugno 05 Lunedì calendario

Biografia di Rocco Hunt raccontata da lui stesso

Lo sa di essere una voce della Treccani? «Rocco Hunt: nome d’arte del rapper italiano Rocco Pagliarulo».
«Uà, me l’avevano detto, non ci credevo. Mi sento improvvisamente colto. Pensare che dodici anni fa mi ascoltavano giusto tre cani».
A casa la chiamano Rocchino.
«Resto sempre il piccolino, pure se sono cresciuto. I miei hanno festeggiato i 29 anni di matrimonio. “Il giorno delle nozze c’ero già anch’io, nella tua pancia”, ho ricordato a mamma. “E sennò mica me lo sposavo a tuo padre”, ah ah».
Ha raccontato: «Sono cresciuto in una stanzetta con la muffa alle pareti».
«La casa era umida, specie d’inverno, ma non c’erano i soldi per chiamare il pittore e togliere le macchie. Però le canzoni più belle le ho scritte lì, anche Nu juorno buono. Avevo fame di vita, di emozioni, di conoscenze».
Anche fame vera?
«Quella mai, ringraziando Dio. Papà era operatore ecologico e si è sempre fatto in quattro per noi, anche quando è rimasto disoccupato e lo vedevo piangere la sera».
E che altro c’era in quella cameretta?
«Tutti i ritagli di stampa che parlavano di me. E il ritratto di Padre Pio, quello stava in ogni stanza della casa. Un giorno papà è entrato e mi ha visto provare le mosse di rap e hip-hop. Sconsolato, ha guardato il quadro implorando la grazia: “Padreppìo aiutalo tu”».
E l’aiuto celeste forse è arrivato quando ha vinto Sanremo tra le Nuove Proposte nel 2014.
«E lui si è tatuato sulla schiena il volto gigante del santo, insieme al titolo della mia canzone».
Dai 15 ai 17 anni, in attesa di successo, faceva il pescivendolo nella bottega di zio Franco.
«Noi di Salerno ci chiamano “i pesciaioli”. Mi svegliavo anche alle quattro di mattina, se c’era il mercato. E quando uscivo incontravo i miei amici che tornavano dalla discoteca, che invidia. Ma con quei soldi mi sono prodotto il primo video, che in un mese ha fatto 40 mila visualizzazioni su YouTube e alla fine mi ha chiamato la Sony».
Che ha imparato in pescheria?
«L’arte di pulire e spinare il pesce. So capire se è fresco con un solo sguardo. Mai comprarlo senza testa, specie i gamberi. Vuole dire che sono almeno del giorno prima».
È cresciuto ai bordi di periferia.
«Al quartiere di Santa Margherita di Pastena o al Ciampa ‘e cavallo, a forma di ferro di cavallo, costruito da Bruno Zevi, sempre ai confini della città, tra le palazzine popolari dell’Ina Casa, quelle con i mattoncini marroni. Adesso sono pezzi da collezione, li vendono su e-Bay».
Dove è più facile perdersi.
«Tanti amici hanno preso una direzione sbagliata e hanno pagato con il carcere o con la vita. La strada avrebbe potuto inghiottire anche me, è stata dura, ma le difficoltà mi hanno dato forza, una marcia in più. La nostra era una famiglia umile ma pulita, di lavoratori. Mi ha salvato. Sono stato fortunato, lì davvero uno su mille ce la fa e io ce l’ho fatta. Quando torno giù, ritrovo gli stessi compagni di allora: uno fa l’operaio, uno il corriere, uno il cameriere, ma siamo ancora noi».
Di quel primo Festival che cosa ricorda?
«Ero un bambino, nemmeno capivo dov’ero, sul palco di Sanremo il mio genere musicale non si era mai visto. Tantomeno un brano che parlava della Terra dei Fuochi. Ma ho preso tanti voti in più di molti Big in gara. Arisa fu molto gentile con me. E subito dopo la vittoria mi arrivarono messaggini di Jovanotti, Eros Ramazzotti, Gigi D’Alessio. A Salerno spararono i fuochi d’artificio, la città era tappezzata di foto mie, come se avessi vinto le elezioni».
E del secondo, nel 2016, tra i Campioni?
«Ero più dentro al business, conoscevo tutti. Durante Sanremo però non ci si frequenta, è un tritacarne, si resta chiusi in camera a guardare la serata. Cantavo “Wake up”, in radio era andata subito forte, ero convinto di piazzarmi tra i primi tre, invece sono arrivato nono, non me lo aspettavo e ci sono rimasto male».
E a Domenica In da Massimo Giletti si sfogò: «Per me lo Stato è assente in certi momenti. Dov’era quando io mi alzavo la mattina e facevo il pescivendolo a 16 anni? E dov’era quando mio padre a casa doveva guardare il frigorifero vuoto?».
«Un giornalista mi aveva accusato di essere qualunquista e di aver fatto il solito piagnisteo del Sud. Ero nervoso e ho reagito».
A un certo punto, nel 2019, annunciò di volersi ritirare, schiacciato da troppe pressioni.
«Era soltanto uno sfogo su Instagram perché non riuscivo a pubblicare il mio album. Anche per problemi miei. Scoppiò una bomba mediatica. Poi però sono tornato, ho fatto pace con me stesso dopo due anni confusi. Ero in crisi di identità, non sapevo ancora che la strada presa era quella giusta».
Ed è cominciata la stagione dei tormentoni estivi che ancora dura: «Ti volevo dedicare» (con J-Ax e i Boomdabash), «A un passo dalla luna» e «Un bacio all’improvviso» (con Ana Mena), «Caramello» (con Elettra Lamborghini e Lola Indigo), adesso «Non litighiamo più», già disco d’oro.
«Volevo fare rap puro, ma la gente voleva altro. Un sacco di rapper vanno in crisi quando diventano troppo pop».
Chi sono i suoi migliori amici nella musica?
I dischi d’oro regalati
Ho vinto 25 dischi di platino e 14 d’oro, ma mia moglie mi ha proibito di portarli nella casa nuova Ho deciso di regalarne qualcuno ai fan storici, ho un sacco di doppioni
«Clementino, ci frequentiamo da tanto. E Geolier, fenomeno del momento, usciamo insieme quando passo per Napoli. Da piccolo era un mio fan, ha voluto la torta di compleanno con la mia faccia sopra. Rappresentiamo il riscatto di noi che cantiamo in dialetto, ormai è stato sdoganato».
C’era già stato Pino Daniele.
«Le radio passavano solo le canzoni in italiano. Zio Pino. Ho avuto l’onore di cantare con lui al Palapartenope. L’avevo incontrato negli studi di Radio Dj, mi ero imbucato per conoscerlo. “Uè uagliò, che tieni da fare a dicembre?”. “Niente, Maestro, specie se mi volete voi”».
Chiama Maestro anche Gigi D’Alessio?
«Con Gigi ho più confidenza. Poi c’è Eros, tra noi c’è un grande affetto. Registravo nel suo studio, facevo una cover di Edoardo Bennato: Un giorno credi. Entrò e cantò con me il ritornello. Ho un buon rapporto anche con Jovanotti, l’anno scorso sono stato al suo Jova Beach Party, abbiamo suonato insieme, forte, è stato di ispirazione per il mio percorso».
Le chiesero di scrivere l’inno del Napoli, disse di no.
«Sarebbe stato un grandissimo onore ma era più giusto che lo facesse un napoletano doc, che se lo sente sulla pelle».
Fa incetta di dischi d’oro e di platino.
«Ne ho 25 di platino e 14 d’oro, ma vorrei disintossicarmi da questa logica. La carriera te la fanno i numeri, vero, ma anche i pezzi che non vincono premi eppure entrano nel cuore della gente e la spingono a comprare il biglietto di un concerto».
Dove li tiene?
«Mia moglie mi ha proibito di portarli nella casa nuova, li ho lasciati nel mio studio di registrazione. E ho deciso di regalarne qualcuno ai miei fan storici, tanto ho un sacco di doppioni. Ma non sono mica d’oro vero».
L’ultimo video l’ha girato a Corviale, il Serpentone, periferia sud-ovest di Roma.
«Quando me l’hanno proposto sono rimasto folgorato. Ho dentro questa esigenza di rappresentare la periferia. Voglio dare speranza e regalare felicità ai bambini di quei quartieri».
L’hanno accolta come uno di famiglia.
«Alcune scene le abbiamo girate a casa di una signora che poi ci chiedeva il permesso di rientrare nella sua stanza».
Ha rimediato pure un pasto caldo? Che so, un piatto di bucatini cacio e pepe?
«Magari, stavo a dieta, solo tanti caffè. Da Caramello ho perso 15 chili».
E come?
«Allenandomi. Mangiando pulito, con il piano nutrizionale giusto, c’è anche la pizza. Ma posso bere solo un calice di vino due volte a settimana, un sacrificio per me che sono un appassionato. Qualche settimane fa ero a Bordeaux a degustare i rossi e ho sgarrato. Ci sta. Sennò come le scriviamo queste canzoni?»
Gli occhialoni fanno subito Rocco Hunt.
«Li porto dalla prima elementare, sono astigmatico, non ho mai voluto toglierli, mi piace l’immagine da scugnizzo intellettuale e me li tengo, ne ho tantissimi. A scuola mi chiamavano quattrocchi, ma anche chiattone e poi terrone, però io non mi offendevo, sono orgoglioso delle mie origini e dei miei difetti».
Ha i capelli curati al millimetro.
«È una malattia, sono fissato con la sfumatura del taglio e la barba in linea, almeno una volta alla settimana vado a confessarmi dal barbiere. Di solito mi segue Nando Quaranta, lo stesso dei calciatori del Napoli. Quando sono in tour istruisce il sostituto di turno».
Come ha conosciuto sua moglie Ada?
«Siamo amici dall’adolescenza, da quando lavoravo in pescheria. Siamo sposati da 6 anni, oddio no, da 7, se mi sente mi ammazza».
Corteggiamento lampo?
«Magari. Come tutte le donne si è fatta desiderare, le sono stato appresso per due o tre anni. Poi, quando cominciava a cedere, mi sono fatto desiderare io. Ma ho resistito due mesi».
È diventato padre a 23 anni.
«E sono fortunato, Giovanni detto Giò Giò a sei anni è un bambino sensibile, educato, per niente viziato, frequenta una scuola internazionale a Milano».
Gli piacciono le sue canzoni?
«Sì, le ascolta sempre in anteprima, è il mio primo tester. Ma è dura fargli capire che non deve cantarle in classe, me le spoilera sempre. Non litighiamo più non era ancora uscito e tutti i suoi compagni già cantavano «la canzone dei missili». («Le tue parole sono missili, missili/Me ne arrivano tantissimi, fortissimi»).