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 2023  giugno 05 Lunedì calendario

Da "L’erosione" di Tonia Mastrobuoni (Mondadori)

Ho conosciuto un ventenne a Puławy, comune polacco autoproclamatosi «lgbt-free». Deve nascondersi tutti i giorni dalle ronde di nazisti che vanno a caccia di omosessuali, molestano le sue amiche lesbiche e gettano volantini omofobi nel giardino di casa sua. Ho intervistato un giudice a Varsavia cui hanno imbrattato la porta di escrementi. Riceve minacce di morte con la stessa frequenza con cui i suoi colleghi, aizzati dal governo, lo rinviano a giudizio. Ho parlato con un giornalista di Cracovia che si è dimesso dalla televisione pubblica perché era stanco di fare servizi bugiardi, proni al regime. Che ora rischia un processo farsa ed è stato contattato dai servizi segreti che forse lo vogliono arruolare come delatore. Sono andata a trovare una delle madri delle proteste pro-aborto, sfinita da ventidue procedimenti giudiziari, dalle minacce violente che l’hanno inseguita fin sotto casa e dai servizi infamanti nelle emittenti pubbliche che l’hanno bollata come «nemica dello Stato». Ho incontrato un italiano, a Budapest, che ha cambiato casa dieci volte perché un suo scherzo goliardico al Pride ha suscitato le ire di un club di motociclisti neonazisti. Che lo ha riempito di insulti omofobi e antisemiti e ha annunciato su Facebook una taglia di diecimila euro per chi lo ucciderà, senza che la polizia facesse nulla per proteggerlo. Ho raccolto le testimonianze degli avversari di Orbán che pensano di non poter più vincere le elezioni in Ungheria, perché gli spazi per l’opposizione in televisione o in radio, sui giornali o nel web, nelle università o nelle istituzioni pubbliche sono letteralmente spariti, inghiottiti dal «partito unico» di governo. Ho parlato con una donna ungherese la cui figlia sedicenne è stata fermata da un poliziotto che voleva sbatterla in prigione per «propaganda gender»: aveva il simbolo arcobaleno sullo zainetto. Sono soltanto alcune delle storie che ho raccolto negli ultimi otto anni e che racconto in questo libro. Nei miei viaggi in Ungheria e in Polonia ho visto la democrazia spegnersi, ma è stata la cronaca di una morte annunciata. Un’erosione programmatica, avvenuta senza colpi di Stato, assalti ai palazzi o repressioni sanguinose. E sotto gli occhi di un’Europa inerme, che ha tollerato che due Paesi membri scardinassero dal primo giorno i principi che regolano le democrazie in Occidente, a cominciare dalla tripartizione dei poteri, il principio di Montesquieu, che imporrebbe l’autonomia dei poteri esecutivo, giudiziario e legislativo. A Varsavia e a Budapest il governo ha l’assoluto controllo di tutto e schiaccia ogni opposizione, usando il Parlamento e i tribunali come grimaldelli. Un clima di terrore accentuato da bande di aggressori più o meno anonimi, che accompagnano la persecuzione di Stato con minacce di morte e campagne denigratorie che viaggiano nel web ma arrivano certe volte fin sotto casa. Mentre la Commissione, il Parlamento e la Corte di giustizia europei in questi anni hanno reagito, aprendo procedure, votando risoluzioni, emettendo sentenze, bloccando fondi, l’Europa dei governi ha preferito girarsi dall’altra parte. Come ha osservato il politologo Daniel Kelemen, l’Europa si è nascosta dietro alle denunce per le ripetute violazioni dello Stato di diritto per non dire che in Ungheria e in Polonia è morta la democrazia: «Un cancro si aggira per l’Europa, è il cancro dell’autocrazia». Che il Paese di Orbán e quello di Kaczyński non si possano più considerare delle democrazie è un fatto. Ce lo ricordano persino le proteste in Israele della primavera del 2023 contro la criticatissima riforma della giustizia di Benjamin Netanyahu: «Non siamo la Polonia!», gridavano i manifestanti in piazza. E negli Stati Uniti, l’«orbanismo» è diventato da anni fonte di ispirazione esplicita per i seguaci di Donald Trump, l’ala più radicale e liberticida dei repubblicani. Che l’Europa, culla della democrazia, sia diventata il fulcro di nuove tirannidi, il cattivo esempio, il laboratorio dei regimi che scimmiottano la Russia di Putin e recuperano gli aspetti più deleteri del socialismo reale fa venire i brividi. L’impulso che mi ha indotto a scrivere questo libro è il pericolo che l’Italia si incammini sulla china eversiva di Orbán e Kaczyński. Il governo di Giorgia Meloni guarda con esplicita ammirazione all’Ungheria e alla Polonia. I suoi partiti maggiori, Fratelli d’Italia e Lega, si sono opposti continuamente alle condanne delle istituzioni europee, hanno reagito con sdegno quando Budapest e Varsavia sono state richiamate da Bruxelles per scongiurare la distruzione sistematica del loro ordinamento giudiziario, l’asservimento dell’informazione pubblica e privata al governo, la persecuzione delle minoranze e della comunità Lgbtq+. E nel Parlamento europeo Meloni è presidente dei conservatori e riformatori (Ecr), il gruppo che conta tra i suoi membri Diritto e Giustizia, la forza politica ultracattolica dei Kaczyński che ha guidato la svolta autoritaria in Polonia. I campanelli di allarme ci sono. Il linguaggio di Meloni,di Salvini e dei loro luogotenenti è identico a quello di Orbán, di Kaczyński e dei loro fedelissimi: la condanna della presunta «ideologia gender»; le campagne antisemite contro fantomatiche «élite liberali» capitanate dal finanziere e filantropo George Soros che ordirebbero una ipotetica «sostituzione etnica» attraverso i migranti; l’odio contro gli «euroburocrati»; i richiami alla «sovranità nazionale»; la clava del cristianesimo usata contro i diritti delle donne e della comunità lgbtq+. Tutto si lega: le autocrazie sperimentali dell’Est e l’Italia più a destra di sempre. Ma oltre agli incontri personali che hanno cementato negli ultimi anni i legami tra Meloni, Salvini e i vertici di Fidesz, il partito-padrone dell’Ungheria, e di Diritto e Giustizia, il partito-padrone della Polonia, in questo libro racconto che c’è un’oscura galassia nera che li connette. Il Congresso mondiale delle famiglie o Agenda Europe sono i riferimenti internazionali della destra italiana, ungherese e polacca. Organizzazioni che propagano un cristianesimo medievale, l’omotransfobia, il bando dell’aborto e del divorzio, e che sono notoriamente foraggiate e finanziate da complottisti americani e russi. Jan-Werner Müller, grande studioso di Princeton delle derive antidemocratiche a Est, sostiene che l’Ungheria sia da tempo diventata per molti una «Disneyland nazionalista-conservatrice (dove gli uomini sono ancora uomini e le donne sono ancora donne)». E gli ammiratori di Orbán, come Donald Trump, ma anche Salvini e Meloni, che lo festeggiano come «vero leader dell’Occidente» o come campione della ribellione contro il liberalismo, dimostrano una cosa sola: «che sono pronti a pagare qualsiasi prezzo pur di vedere realizzati i loro sogni illiberali, persino accettando l’autoritarismo e la cleptocrazia».