Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 05 Lunedì calendario

Il punto sull’Ilva

“In bilico tra santi e falsi Dei”, cantavano i Negramaro qualche lustro fa. Il verso si presta bene a descrivere la situazione che da almeno un decennio vivono la fabbrica più grande d’Italia e tutti i suoi dipendenti. In questi giorni, proprio alle porte dell’estate, le difficoltà dell’ex Ilva – oggi Acciaierie d’Italia – si sono di nuovo acuite, come ormai accade con frequenza periodica. Si è acuito soprattutto lo scontro ai vertici della società tra la minoranza pubblica e la maggioranza privata: uno scontro spiattellato senza troppe remore anche sugli organi di stampa tramite uno scambio di lettere al vetriolo tra presidenti e amministratori delegati.
Al vertice si combatte per le quote di maggioranza dello stabilimento, per la gestione del “Dri” – l’impianto, destinatario di fondi del Pnrr, che dovrebbe realizzare il “preridotto”, il materiale necessario alla parziale conversione ecologica dello stabilimento di Taranto – e per il rispetto degli obblighi di legge a tema ambientale: intanto in fabbrica la situazione è nuovamente al collasso.
Nonostante la recente ripartenza di Afo 2, che va ad aggiungersi alla marcia degli altoforni 1 e 4 – il 5, il più grande e potente, è ancora fermo in attesa di interventi di rifacimento – la produzione ristagna. Il livello dei prodotti finiti – i coils, da cui si ricavano carrozzerie per auto, rivestimenti per elettrodomestici, etc. – continua ad essere basso; parte dei semilavorati, le bramme realizzate nell’area a caldo di Taranto, vengono spedite ad aziende del Nord Italia e, da qualche mese, anche alle acciaierie di Arcelor Mittal in Europa, per compensare le perdite produttive subite da queste ultime a seguito di alcuni incidenti (un’intera nave di bramme destinata agli stabilimenti della multinazionale dovrebbe partire proprio nei prossimi giorni).
LEGGI – Lite ai vertici e stallo con Mittal. Il governo lascia spegnere Ilva?
Nel frattempo a Taranto i lavoratori in cassa integrazione sono paradossalmente aumentati: da una media di 1.800 a 2.000 unità circa. Anche per questo le relazioni sindacali sono tornate a essere tormentate: nonostante un accordo sulla Cassa sottoscritto solo due mesi fa, la direzione aziendale ha assunto di nuovo l’atteggiamento arbitrario e padronale che l’aveva caratterizzata nei primi tempi del suo insediamento, con riflessi persino sulla gestione delle ferie. Come se non bastasse, secondo le risultanze dell’Asl locale riferite all’anno 2022, sono aumentate le emissioni di benzene, evidentemente dovute anche alla mancanza di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti, una mancanza ormai strutturale: questi dati hanno portato il sindaco di Taranto a emettere l’ennesima ordinanza di monitoraggio e – in caso di esiti negativi – di chiusura dell’area a caldo dello stabilimento.
L’impressione è che, in mancanza di un intervento energico da parte del governo, che miri a cambiare rotta e che dica finalmente una parola definitiva sull’assetto societario e manageriale, non se ne possa uscire a breve: qualsiasi progetto, nelle condizioni date, è irrealizzabile. L’esecutivo Meloni, però, non pare discostarsi molto si questo dai suoi precessori.
Riavvolgendo il filo della storia si possono individuare alcuni momenti cruciali che ci hanno condotti dove siamo. Il primo è senz’altro il processo di privatizzazione, culminato nella cessione dell’Ilva alla famiglia Riva nel 1994. Mentre nel resto d’Europa la ritirata dello Stato dalla siderurgia produceva la nascita di colossi multinazionali – fra questi la stessa Arcelor –, in Italia s’è fatto il contrario, spacchettando il gruppo Finsider a vantaggio di medi imprenditori che, attraverso l’acquisizione di pezzi dell’industria pubblica hanno potuto fare un salto dimensionale. L’Ilva dei Riva ha tentato di colmare il divario coi più robusti concorrenti esteri attraverso un intreccio inestricabile di efficienza produttiva e di inasprimento delle pressioni sul lavoro e sull’ambiente.
Il meccanismo si è incrinato con la crisi finanziaria ed è deflagrato coi sequestri dell’estate 2012. La nuova fase è stata caratterizzata dalla progressiva estromissione dei Riva e dal peso crescente assunto dal governo nella direzione dell’azienda: questo però ha dimostrato di non avere una strategia chiara. I ripetuti cambi di passo succedutisi dal 2013 sono culminati nella gara per la cessione della società. L’esito è noto: lo stesso governo (allora presieduto da Matteo Renzi), sceso in campo con Cdp a sostegno di una delle due cordate, è stato sconfitto insieme, quel che è peggio, a un progetto di razionalizzazione della siderurgia italiana che passava dall’integrazione fra Ilva e Arvedi, azienda leader nel campo dell’innovazione tecnologica.
Il vincitore, Arcelor Mittal, ha così potuto consolidare la sua supremazia sul mercato europeo inglobando il principale sito produttivo del continente e i suoi canali di distribuzione, in realtà indebolitisi negli anni del commissariamento. È da questo nodo che passa il futuro: controllando Taranto, Mittal può impedire a eventuali concorrenti di emergere e minacciare la sua egemonia; d’altra parte, il peso socio-economico dello stabilimento – che va ben al di là della dimensione locale – le regala un discreto potere di leva sulle istituzioni. Lo stesso ingresso dello Stato nel capitale, da cui è sorta Acciaierie d’Italia, rischia di configurarsi come una tipica “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”. Insomma, il “pallino” ad oggi resta nelle mani del gruppo franco-indiano, che può condizionare gli sviluppi dell’azienda.
La prima vittima di questo state di cose potrebbe essere il non più rinviabile risanamento ambientale della fabbrica: nel caso, la chiusura sarebbe inevitabile, ma difficilmente questo comporterebbe la “conversione programmata” dell’economia locale auspicata da alcuni. Più probabilmente l’esito sarebbe accelerare il declino già in corso di Taranto e della manifattura italiana.