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 2023  maggio 25 Giovedì calendario

Biografia di Giorgio Pasotti raccontata da lui stesso

Ni hao ma?
«Wo hen hao, xiexie ni».
La tentazione era troppo forte per non chiedere come stai in cinese all’attore Giorgio Pasotti, che a Pechino ha vissuto dai 19 ai 22 anni. Lui non ha tentennato un secondo e ha risposto «molto bene, grazie a te», dimostrando di non aver dimenticato gli studi fatti all’Università dello Sport quasi all’indomani della rivoluzione di piazza Tienanmen. Lo stesso periodo ha segnato il suo debutto come attore, per tre diverse produzioni di Hong Kong. Ci incontriamo in un bar storico di Bergamo Alta, dove è nato. Il medico mancato che è riuscito a esercitare la professione soltanto sul set, ha perso l’accento della sua città di origine, ma non la dedizione al lavoro e il pudore dei sentimenti. L’unica eccezione la fa quando parla della figlia Maria, 13 anni, avuta dalla collega Nicoletta Romanoff. Lì ammette: «La paternità fa bene alla categoria. Gli attori sono egocentrici e narcisisti: è salutare sentire di non essere più al centro del mondo».
Come arrivò alla Cina?
«Mio padre aveva un negozio di oggettistica orientale e conosceva un antiquario di Pechino che mi parlò di questa università, equivalente dell’Isef. Mi ci portò per un corso estivo a 14 anni. L’idea era frequentarlo per poi fare Medicina in Italia. Partii quando mi congedarono al militare per l’asma allergica, ero alpino assaltatore».
Cosa ricorda di quel periodo?
«Indossavano tutti la divisa di Mao Zedong, il libretto rosso in tasca, vedevi solo bici. Mangiavo in mensa, la mia stanza era un loculo due metri per tre. Sono stato privato di tante cose rispetto ai miei coetanei, ma eravamo contenti per il cambio di stagione, per una nevicata, cose così. Nell’approccio alle arti e ai miei mestieri ognuno faceva quel che gli piaceva».
La racconta come un paradiso delle libertà.
«Ho goduto di quel momento irripetibile, tre anni dopo la rivoluzione studentesca. Ho visto il primo universitario con una maglietta dei Kiss».
Lì la scritturarono per i primi tre film. Cosa fece con i soldi guadagnati?
«Viaggi. Ho girato il Sudest asiatico, Malesia, Thailandia, Vietnam, Singapore, Filippine».
Da bambino sognava già di fare l’attore?
«Vaneggiavo di fare il mandriano in Canada».
Se non avesse fatto l’attore?
«Mi sarebbe piaciuto il produttore musicale».
Chi produrrebbe, oggi?
«Vivo di quello che mi fa sentire mia figlia. Forse gIANMARIA. E poi Noemi: quando partecipò a X Factor la votai. L’ho incontrata a una cena, ma non ho avuto il coraggio di dirglielo».
Dove nasce la passione per la musica?
«Da mio padre, Mario, diplomato al Conservatorio. Mi ha cresciuto facendomi ascoltare Lucio Dalla, Cocciante, i Beatles, i Pink Floyd».
Ne ha conosciuto qualcuno?
«Lucio Dalla, e mi è sembrato di incontrare una sorta di zio, uno di famiglia. Eravamo a un evento, lui stava suonando il pianoforte a coda bianco, io mi sono fiondato. Fu gentilissimo».
Incontri con i miti del cinema?
«Non ho mai mitizzato nessuno. Ho incontrato De Niro, Al Pacino, Tom Cruise, DiCaprio. Sono riferimenti, però questi incontri restano superficiali: in quei contesti non si può mai andare in profondità. Avrei voluto conoscere Volonté».
George Clooney?
«Con lui ci siamo fatti grandi risate. Entrambi siamo stati medici per finta. Anche lui sul set non si ricordava mai i termini scientifici: metteva dei bigliettini sulla schiena degli altri».
E i suoi stratagemmi, invece?
«Fortunatamente adesso i medici usano gli iPad: io leggo lì».
Il suo debutto americano fu disastroso.
«Disastrosissimo. Nel 1995, con The Dragon Fury II. A Los Angeles ci sono dei giornali che ti informano di tutti i provini, dai super cast ai film di serie Z. Per uno di questi cercavano un ragazzo esperto di arti marziali. Forte dei miei tre film in Cina mi presentai e mi scelsero per due ruoli, uno da uomo mascherato e uno in cui dovevo recitare: tagliarono le scene in cui recitavo e tennero l’altro, che veniva ucciso subito».
Però tornò in Italia e la sua carriera decollò, con «I piccoli maestri» di Daniele Luchetti.
«È il ruolo cui sono più affezionato. Durante la guerra il primo dei fratelli di mio padre morì a 16 anni, fucilato dai fascisti, e l’idea di interpretare uno studente che aveva deciso di abbracciare la Resistenza mi era sembrato la restituzione alla mia famiglia di qualcosa che non so definire».
È anche regista. Abbi fede è un piccolo gioiello: paradossale, cinico, commovente.
«Un branco di disperati trova una guida in un folle più matto dei matti. Era il remake del danese Le mele di Adamo. Quando ho deciso di misurarmi nella regia sapevo di volermi occupare di paternità, fede e lavoro. Al primo tema ho dedicato Io, Arlecchino, al secondo Abbi fede. Il terzo sarà sul mondo del lavoro: è tratto da Il metodo, di Jordi Galceran. Cominciamo ad agosto».
Vuole fare sempre lei il protagonista?
«È che i personaggi di questo trittico sono davvero orrendi, non avrei potuto chiedere a nessuno di interpretarli. Dopo non sarà così».
È direttore del Teatro Stabile D’Abruzzo.
«Mi sono rimboccato le maniche. “L’arte non si ferma” era un progetto bellissimo nato in quei giorni di Covid: avevo chiesto alle compagnie locali di fare riduzioni dei loro spettacoli originali, ho fatto sanare un teatro e chiesto alle due principali emittenti televisive regionali di riprenderli. Li ho aiutati senza fare beneficenza. Lo Stabile ha ricevuto nel 2022 il contributo più alto mai conferito nella sua storia dal Fus».
Il 22 giugno compirà 50 anni. Che effetto fa?
«Citando il buon Jep Gambardella, che ho conosciuto bene, non vuoi più perdere tempo con cose di cui non ti frega niente».
Se si guarda indietro, il momento più bello?
«Dirò una banalità: la nascita di mia figlia».
Tolto quello?
«Vincere una gara importante e salire sul gradino più alto del podio è una delle gioie più grandi che un essere umano può vivere, perché solo tu sai quali sacrifici ti hanno portato fin lì».
È stato tre volte campione europeo di wushu.
«Alle prime note dell’Inno di Mameli cominciai a piangere come un bambino. Una gioia non paragonabile ai premi ricevuti da attore».
Sua figlia Maria è felice di un papà famoso?
«Quando era piccola la mia sovraesposizione non le faceva piacere, era gelosa. Ora comincia a fiorire una stima diversa verso la professione che il padre fa e per la quale viene riconosciuto».
Ha visto i suoi film?
«Alcuni sì, la maggioranza no: per lei sono un attore del paleolitico, del cinema muto».
È coautore della sceneggiatura di «Mio papà», film di Giulio Base. L’aveva dedicata a Francesco e Gabriele, i figli che Nicoletta Romanoff ha avuto da Federico Scardamaglia.
«Farò sempre parte della loro vita e loro della mia. Nutro un affetto profondissimo per quei ragazzi. Mi auguro di essere stato un punto di riferimento e di aver contribuito alla loro educazione anche solo come esempio di persona leale e buona. Hanno un padre presentissimo e una madre che ha dedicato a loro la vita, ma le cose che abbiamo vissuto insieme sono indelebili».
Sta pensando a un’altra paternità con la sua compagna, Claudia Tosoni?
«Sì, ci piacerebbe».
Ha 20 anni meno di lei: la preoccupa?
«No, è molto matura».
Le spiace che il Teatro Donizetti di Bergamo non l’abbia mai invitata in tutti questi anni?
«Non entro nel merito delle decisioni di un direttore artistico, che può invitare chi vuole».
Ma a lei piacerebbe?
«Certo, è il teatro della mia città! Forse non c’è stata mai occasione. Ora però potrebbe esserci con lo spettacolo di Alessandro Gassmann».
Quello in cui recita come uno scimpanzé.
«Proprio così, uno scimpanzé e una talpa. Sono i Racconti disumani di Kafka».
Abbiamo parlato di momenti belli. E brutti?
«Quando un attore non riscontra il gradimento di pubblico o critica si mette in discussione».
A lei quando è successo?
«La mia opera prima da regista fu ingiustamente non amata dalla critica. Ma a ferirmi è stato quel liquidare a priori il fatto che un attore potesse fare anche il regista».
Sconta anche di essere un bell’uomo?
«Per molti anni è stato così».
Il regista con cui le è piaciuto di più lavorare?
«Tanti. Ho lavorato con Sorrentino, Monicelli, Davide Ferrario, Gabriele Muccino, Robert Lepage. Sono stato fortunato».
Lo sfizio che si è levato?
«La possibilità di scegliere i lavori e di godermi il tempo: posso stare a casa un mese per leggere Proust, se voglio. Il primo anno di mia figlia l’ho trascorso deliberatamente senza lavorare. Faccio impazzire le produzioni, ma mi prendo la libertà di andarla a prendere a scuola».
Il film che avrebbe voluto interpretare?
«Novecento di Bertolucci».
Dirigere?
«C’eravamo tanto amati di Scola».
James Bond?
«No, quello è puro intrattenimento. Allora preferisco fare Top Gun».
Come mai ha una casa a Venezia?
«Perché è la città più bella del mondo, un’oasi sospesa nel tempo».
Ha vissuto anche a New York.
«Sì, quando ho frequentato la mia prima scuola di regia. Ma sono fuggito: quella città ti richiede un dispendio di energia per noi italiani contro natura. Noi abbiamo bisogno dei momenti in cui ti fermi a parlare con il barista. Lì lavori anche quando non lavori».
Che squadra tifa?
«Due. Atalanta, perché è la squadra della mia città. E poi l’Inter, per colpa di mio nonno, operaio milanese trapiantato a Bergamo: la domenica si rinchiudeva in cucina ad ascoltare le partite alla radio. Accesso proibito a noi nipoti».