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 2023  maggio 24 Mercoledì calendario

Biografia di Fabrizio Moro raccontata da lui stesso

«La verità è che a me fa male la tv», spiega Fabrizio Moro. Sa di apparire spesso ombroso, corrucciato. «È che davanti alle telecamere sono sempre un po’ in imbarazzo. Ma sono molto diverso da quella immagine lì, e anche solo chi viene ai miei concerti lo sa». Sono stati tanti, negli ultimi mesi. È appena uscito il suo nuovo ep, «La mia Voce vol. 2». «L’ho scritto nel 2020, durante la pandemia. Avevo tempo per riflettere».
Pare essersi concentrato parecchio sull’amore, stando alle canzoni.
«In quel periodo ho vissuto una solitudine pazzesca: non avevo una compagna, me ne stavo chiuso dentro casa e pensavo».
Ha scritto di relazioni non sane, tossiche.
«Un problema in cui mi sono perso diverse volte, per via di quella ricerca costante di un po’ di adrenalina. Nel nostro immaginario pensiamo di ambire alla pace, alla serenità, però poi, alla fine, mi sono accorto che nelle relazioni andavo sempre alla ricerca di sensazioni forti, quelle che ti danno i rapporti quando iniziano: è come se generassero sostanze che ti fanno sentire vivo e che, al tempo stesso, creano dipendenza».
E come si spezzano questi meccanismi?
«Niente, aspetti che invecchi e ti rompi. Ora ho l’antenna per le montagne russe: se non riesco a leggere bene una persona, cosa che prima mi affascinava, oggi evito. E inizio a sognare davvero la serenità di una passeggiata in riva al mare, magari col tuo cane. Io ci sto arrivando».
Come si è accorto che certe sue relazioni non erano sane?
«Perché mi portavano a fare cose assurde, perdevo il controllo delle mie emozioni. Si innescano delle dinamiche che tirano fuori il peggio di ognuno: mi guardavo allo specchio e mi dicevo “possibile che io sia così brutto?”. Basta un minimo di autoanalisi per rendersene conto. In genere, quando queste storie finiscono ti senti peggiorato: risultano dei fallimenti. Non sei felice per aver comunque creato qualcosa. Anzi, io mi sentivo logorato per aver sofferto e fatto soffrire. L’obiettivo dovrebbe invece essere sempre quello di migliorare, lavorando sulle lacune della nostra anima».
Molto introspettivo.
«Lo sono. E mi piace poter condividere attraverso la musica, ma anche i film, il mio vissuto. Penso che possano lasciare qualcosa, anche solo in termini di esperienza, agli altri. In primo luogo ai miei figli: mi piace sapere che avranno a disposizione le cose che ho scritto, anche quando non ci sarò più. Confesso di essere un po’ ossessionato dalla morte: non ne ho paura, mi incuriosisce. Ma mi soffermo spesso a immaginare come sarà quando non ci sarò».
Questa riflessione non aiuta però a smontare la sua immagine ombrosa.
«Eppure non sono tormentato. La mia adolescenza è stata il periodo più bello della mia vita: sono cresciuto con un gruppo di persone molto affiatato, fatto di parenti e amici. Nonostante le difficoltà, nonostante provenissimo tutti da un quartiere difficile, da una situazione non agiata, ci divertivamo ogni giorno e siamo tutti ancora oggi molto legati».
Dove è cresciuto?
«Nella periferia di una periferia: Setteville nord, periferia di San Basilio. Mi ci sono trasferito a 14 anni: non c’era niente. Non c’erano strade asfaltate, non c’era un bar... c’erano solo 50 ville con solo il primo piano finito e sopra tutto da fare. In quel contesto, noi ragazzini ci siamo conosciuti e siamo cresciuti, attorno a un muretto del quartiere. Passavamo Natale insieme, le vacanze insieme... si era creata questa piccola comune. E nei miei ricordi di allora c’è sempre il sole».
Nell’ep c’è anche un brano dedicato a quelle persone, che si intitola proprio «Il sole».
«Mi riaggancio ai momenti più belli che abbiamo vissuto assieme, in estate. Molti amici li ho persi. Alcuni morti per la droga, perché allora circolava ancora in maniera importante. Altri sono morti in incidenti stradali. Tra loro, il mio migliore amico: morto in moto, a 23 anni. Quando subisci la prima morte violenta smetti di essere un adolescente e cresci di colpo. Diventi uomo in un minuto, perché realizzi che le cose possono accadere e non dipende tutto da te, anche se da adolescente ti mangeresti il mondo».
Cosa faceva quando andava al muretto?
«Ero l’unico che suonava la chitarra. Avevo 15 anni e iniziavo a strimpellare le prime canzoni di Ligabue, uno dei miei cantautori preferiti. Tutte le sere andavo lì e suonavo. Gli altri cuccavano, io mai: io rimanevo con la chitarra».
Chi l’ha spinta a suonarla?
«L’ho deciso io e ho imparato a suonarla da autodidatta. La prima volta è stata quando sono andato a casa di un mio compagno di classe di terza media, Giorgio. Lui era in fissa con gli Iron Maiden... fa impressione pensare alla differenza di gusti che c’è con i ragazzini di oggi... comunque, io ero un metallaro perso: lui suonava la batteria e abbiamo pensato che se avessi imparato a suonare la chitarra avremmo formato una band. Mio cugino Ciccio mi ha regalato quella che teneva in soffitta: aveva quattro corde. Ho iniziato a provare. Poi dei ragazzi più grandi mi hanno insegnato a suonare Battisti, Vasco...».
Ed è nato l’amore con quello strumento.

«Me la portavo ovunque, anche in vacanza. Non c’erano i telefoni, quindi per noi amici il sabato sera era chitarra, birra e risate: modificavamo i testi delle canzoni famose per prenderci in giro. Ricordo una mia versione di “Bar Mario” che faceva ridere tutti... Sono stato fortunato: ho amato molte persone che mi hanno amato».
E con la sua famiglia?
«Siamo uniti ma non posso dire di avere lo stesso legame. Ci vogliamo bene, certo. Ma non siamo empaticamente così affiatati. Mio padre fa il contadino: un calabrese che si è trasferito a Roma da piccolo, lavora nei campi da quando aveva 12 anni... non è un sognatore, ha mantenuto sempre i piedi per terra».
E quando gli ha detto che voleva fare il cantante?
«Mi diceva: tu sei pazzo. Non erano contemplati sogni del genere nelle nostre vite. Di base, il rapporto tra noi è rimasto così. Mio padre questo disco non l’ha ancora sentito... magari se lo va a comprare da solo, ma senza dirmi nulla. Di certo non è il padre che mi dà consigli».
Questa cosa la fa soffrire?
«È un equilibrio che abbiamo trovato. Anche quando sono andato a Sanremo non mi ha detto nulla e se lo facesse penso che io mi imbarazzerei: è un uomo radicato a terra, la mia è una dimensione che non gli appartiene. È un rapporto molto strano da decifrare, ma è così. Anche quando faccio concerti particolarmente grossi, magari a Roma, io mio padre non lo vedo, non mi viene a trovare in camerino. Preferiamo tutti e due così, vederlo mi scompone. Del resto è lui che mi ha cresciuto in questo modo».
Lei che tipo di padre è con i suoi figli?
«Io faccio completamente il contrario di quello che mio padre ha fatto con me. Proprio perché ho vissuto questa relazione, con i miei figli sono aperto, parlo di tutto e cerco sempre di capire la loro interiorità, senza invaderla».
Le mancano i giorni passati al muretto, con i suoi amici?
«Ma quando posso lo faccio ancora: sono rimasto legato in particolar modo a quattro, cinque amici e quando mi fermo a Roma per qualche tempo torno lì, prendo la chitarra e iniziamo a giocare, come allora».
Ma lei lo potrebbe mai comporre un tormentone estivo?
«Eh, dipende. Non lo escludo. I miei fan conoscono anche il mio lato ironico, ma è vero che quando scrivo canzoni ironiche finisco per avere paura di metterle nell’album. Ci sono stati dei pezzi che ho scritto, anche forti, che avrebbero spostato l’attenzione dall’immagine del cantante impegnato, ma avevo sempre paura nel difenderle. Devo arrivarci, ma è una trasformazione che sento che sta avvenendo».
C’è un momento in cui ha realizzato tutta la strada che ha fatto, partendo da quel muretto e dalla chitarra con quattro corde?
«La prima volta che ho suonato in curva, all’Olimpico, nel 2018: è stata un’emozione molto forte. In quello stesso posto avevo assistito ad alcuni dei concerti più belli della mia esistenza: Vasco, Ligabue, Springsteen, gli U2. Trovarmi lì è stata un’emozione che mi ha invaso l’anima».
Ha conosciuto qualcuno di questi suoi miti?
«Aprivo i concerti di Vasco ma non l’ho mai incontrato perché entrava subito dopo di me: ci siamo scritti in qualche occasione, su Instagram. Abbracciarlo è un mio desiderio. Ho diretto un video di Ligabue: è una persona molto seria e la prima volta che l’ho incontrato ero quasi a disagio, non è il tipo che ride e scherza subito e io nemmeno. Sentivo una forte responsabilità. Ci ha aiutato una partita: giocava l’Italia, l’abbiamo vista assieme e ci siamo sciolti».
È anche regista. Farebbe mai l’attore?
«Mi hanno proposto diverse volte di recitare: mi sono arrivate proposte da tre registi molto importanti che ho rifiutato perché non me la sentivo. Ma mai dire mai. Uno di loro, un nome davvero grosso, mi ha chiamato per recitare nel remake di uno dei miei film preferiti. Non ho accettato pensando che un giorno me ne sarei pentito, perché poi so che mi divertirei. Ma credo anche che non si debba esagerare nel fare troppe cose: rischi di diventare un pagliaccio».
Le hanno mai detto che non avrebbe mai sfondato?
«La maggior parte delle persone che ho incontrato nella musica... discografici... per questo ho creato la mia etichetta indipendente. Mi sono sempre ispirato alle persone che hanno fatto qualcosa di importante nella vita: spesso hanno avuto storie difficili. Ma tutte hanno in comune una cosa: sono andate avanti e hanno resistito, anche a chi non credeva in loro».