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 2023  maggio 23 Martedì calendario

Parla Paolo Scaroni

Ci accoglie nella sede della Giuliani, l’azienda farmaceutica resa famosa dall’amaro, in un elegante palazzo a ridosso di Viale Abruzzi. Paolo Scaroni ne è il presidente e il suo ufficio qui è il suo quartier generale a Milano. Il telefonino, avvolto da una custodia rossonera con scritto sopra “presidente” suona spesso, perché da sempre Scaroni è un crocevia di relazioni. La sua dibattuta elezione a presidente di Enel, gli farà lasciare l’incarico alla Rothschild, ma non quello della Giuliani a cui è legato da molti anni e nemmeno quello al Milan, dove ad ogni partita ci lascia un po’ di salute.
Lo hanno accusato di essere vicino a Putin, ma Scaroni spiega che lo storico rapporto tra Eni e la Russia che lui ha vissuto tra il 2005 e il 2014, quando era amministratore delegato di Eni, era una consuetudine in Europa.
Quando ha visto Putin l’ultima volta?
«Nel 2013 a Trieste, con l’allora primo ministro Enrico Letta, quando Putin venne in Italia per il Forum italo russo a cui parteciparono tante imprese italiane tra cui Eni. Fu un incontro ufficiale, come tutti gli altri in cui ho visto Putin».
Non vi siete più sentiti, nemmeno con Alexey Miller l’amministratore delegato di Gazprom?
«No. Se vuole sapere se ero amico di Putin, le rispondo di no. E nemmeno di Miller. Erano partner commerciali dell’Italia come lo erano di tutti i principali Paesi europei. Pensavo che fossero fornitori affidabili, come lo pensava Angela Merkel e il cancelliere austriaco».
Sui tanto criticati contratti con Gazprom, però, che hanno legato l’Italia alla Russia per 35 anni con forniture di gas fino al 40% dell’import nazionale, andati poi in arbitrato, c’è la sua firma.
«Guardi, entro in Eni nel 2005 e appena arrivato mi trovo sul tavolo il rinnovo del contratto con Gazprom.
C’era una bozza, siglata dal precedente management (L uciano Sgubini e Vittorio Mincato ndr ),che era sotto la lente dell’Antitrust che ne lamentava la scarsa reciprocità essendo troppo sbilanciata a favore della parte russa. Dopo aver rinegoziato il contratto a nostro favore, lo porto in consiglio di amministrazione perché superava i 10 anni, e riguardava 22 miliardi di metri cubi, circa il 30% del consumo italiano che era di 70 miliardi di metri cubi».
Lei comunque lo ha approvato, non si è opposto.
«La Russia vende gas all’Europa, e all’Italia, dagli anni Sessanta. Lo ho approvato, perché era nell’interesse di Eni e perché l’ha condiviso il governo italiano. Nel corso del 2006, tutte le società energetiche europee, da Eon a Gaz De France, hanno esteso i loro contratti con la Russia».
Come nascono i primi affari coi
russi sul gas?
«Mattei negli anni ‘50, in piena Guerra Fredda, sottoscrisse il primo contratto per l’acquisto di petrolio russo. Negli anni ‘60 cominciarono i primi progetti di esportazione di gas russo verso l’Europa. Fu possibile perché c’era l’approvazione della Nato. L’Eni fece la parte del leone fornendo apparecchiature, personale e tecnologie. Negli anni ‘70 e ‘80 si realizzano, grazie a Eni, i gasdotti di transito europei».
Tutti i governi (Berlusconi II, Berlusconi III, Prodi II, Berlusconi IV, Monti, Letta) che si sono succeduti durante i suoi mandati hanno sempre approvato?
«Sì. Li tenevo sempre aggiornati e di certo Eni non può firmare certi contratti senza informare il governo».
Perché con la russa Gazprom e non con altri, magari differenziando le forniture?
«Premetto che lo stesso consiglio di amministrazione che ha approvato il contratto con Gazprom ha anche approvato l’aumento di capacità ditrasporto del TTPC, il gasdotto che dall’Algeria porta gas in Italia. Detto ciò, la Russia era considerata più affidabile di altri fornitori, per esempio della Libia di Gheddafi. A quell’epoca il gas lo compravamo in piccole quantità dalla Norvegia e dall’Olanda, molto da Algeria, Libia e Russia».
Ma si può fare affari con tutti?
«Quando una società lavora nel settore del gas, il suo obiettivo è avere il gas più sicuro al prezzo più basso, rispettando eventuali sanzioni. La Russia era considerata affidabile e non c’erano sanzioni nei suoi confronti, né da parte dell’Unione Europea né da parte dei nostri alleati Nato».
Due anni dopo il contratto, però, nel 2008, Putin invade la Georgia e scoppia la prima crisi del gas.
Forse già allora si poteva capire di che pasta fosse fatto?
«La Georgia era una vicenda remota: nessun Paese ha cambiato posizione in seguito a quegli avvenimenti. E nessuno immaginava poi che Putin avrebbe invaso l’Ucraina».
Che persona fosse Putin forse lo si poteva immaginare. A lei contestano anche di averlo aiutato a liberarsi dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky, proprietario della Yukos. Acquistando alcuni asset delle sue aziende espropriate, poi rivendute a Gazprom. Fu un portage?
«No, fu un’operazione estremamente vantaggiosa per Eni chiusa con una plusvalenza di 2,4 miliardi di euro. Khodorkovsky viene incarcerato nel 2003 e la sua società, la Yukos, espropriata: la gran parte diventa l’attuale Rosneft, il resto viene venduto dal liquidatore fallimentare. Quattro anni dopo, nel 2007, con l’assenso di Prodi (allora Presidente del Consiglio ndr) che ci chiede di coinvolgere nell’operazione anche Enel che doveva alimentare con il gas alcune sue centrali elettriche in Russia, compriamo alcuni giacimenti nella penisola di Jamal, nella Siberia occidentale, Eni al 65% ed Enel al 35%. Rivendiamo il tutto a Novatek nel 2013 incassando la plusvalenza. È stata solo un’operazione molto vantaggiosa».
Ma non si è posto il problema che quella era un’azienda espropriata a un oppositore di Putin?
«Quando siamo subentrati, Khodorkovsky non c’era più da tempo, questo problema non me lo sono posto, né io, né Enel, né Prodi. E l’idea del portage non regge di fronte alla plusvalenza».
In quegli anni gli Usa erano favorevoli agli affari di Eni con la Russia?
«Con gli americani seguivo una regola aurea: li tenevo al corrente delle operazioni che facevamo in zone politicamente sensibili. Ogni due mesi andavamo a Washington.
E se parli loro di business, capiscono che non stai facendo politica. Il tema sensibile in quegli anni poi non era la Russia, ma l’Iran».
E Eni che interessi aveva in Iran?
«Lavoravamo molto in Iran finquando nel 2006 vengono emanate le sanzioni in ritorsione contro il proseguimento del programma nucleare. Gli Stati Uniti ci invitano a interrompere i rapporti con Teheran. Noi li interrompiamo ma facciamo presente loro che dobbiamo recuperare tre miliardi di dollari per gli investimenti fatti nel Paese».
Di che investimenti si trattava?
«I contratti con i Paesi petroliferi sono fatti in modo che la società si accolla tutti gli investimenti iniziali e poi recupera questi investimenti attraverso la vendita del petrolio.
Ecco, noi eravamo esposti per tre miliardi di dollari. Ma abbiamo spiegato prima al governo italiano e poi a quello americano che volevamo solo rientrare dell’investimento fatto e siamo stati autorizzati a vendere il petrolio iraniano fino al pareggio dei conti.
Le infrastrutture e il resto dei profitti sono invece rimasti all’Iran».
Quando gli americani giudicano che non è più opportuno fare affari con il gas di Putin?
«Il punto delicato è stato il South Stream, il tubo che passando sotto il Mar Nero doveva collegare la Russia con l’Unione Europea, aggirando l’Ucraina. Il malessere degli Stati Uniti ci fu comunicato dal Dipartimento di Stato. Non vedevano di buon occhio che tanti operatori europei si legassero alla Russia, bypassando l’Ucraina. E ovviamente erano stati contrari anche al Nord Stream, il collegamento diretto tra Russia e Germania attraverso il Mar Baltico, perché le pipeline sono un investimento così grande che lega consumatore e fornitore a lungo termine».
Il Nord Stream fu approvato da Schröder nel 2005 prima dell’elezione della Merkel e fu avviato nel 2011, mentre il South Stream fu avviato all’epoca di Prodi/Bersani ma non è mai entrato in funzione. Lei era favorevole alle pipeline. Se fosse stata realizzata, forse oggi saremmo stati ancora più dipendenti dalla Russia, come la Germania?
«Dal punto di vista della sicurezza energetica, Nord Stream e South Stream offrivano una garanzia maggiore, perché c’era un rapporto diretto con il fornitore, senza Paesi di transito. Ma c’era un problema: l’Ucraina incassava all’epoca 3 miliardi di dollari di diritto di transito. Dei 120 miliardi di metri cubi che arrivavano in Europa, 80 passavano dall’Ucraina. Che aveva quindi un forte potere politico».
Perché Putin voleva tagliar fuori l’Ucraina?
«Putin voleva che l’Ucraina fosse strategicamente irrilevante e lo sarebbe stata senza il passaggio del gas russo diretto in Europa. Dopo la Rivoluzione arancione, l’Ucraina si è sempre più avvicinata all’Europa e allontanata dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), il blocco dei Paesi satelliti di Mosca, un patto basato anche sulla fornitura di gas russo a prezzi di favore. Due volte, nei Natali tra il 2006 e il 2007 e tra il2009 e il 2010, Putin ha usato l’arma del prezzo del gas contro Kiev che si rifiutava di restare nell’orbita di Mosca».
Si poteva quindi immaginare che Putin avrebbe usato l’arma del prezzo del gas anche contro l’Europa?
«Se c’è stato un momento in cui l’Europa avrebbe dovuto fare una riflessione sui rapporti con Mosca è stato nel 2014 dopo l’invasione della Crimea. Questa invasione non è stata un campanello di allarme per ileader europei che hanno continuato a tenere buoni rapporti con Putin. L’atmosfera che si respirava era che più si interagiva con la Russia più la si portava verso i valori del nostro mondo, una sorta di promozione della democrazia attraverso il commercio».
Lei ha detto che qualcuno nella Nato ha guadagnato dal rialzo dei prezzi del gas. A chi si riferisce?
«Nel momento in cui Paesi come la Norvegia approvavano, in seno alla Nato, le sanzioni alla Russia,sapevano che Putin avrebbe reagito alzando il prezzo del gas. E loro che esportano gas, potevano fare in modo che il rincaro non gravasse sui loro partner. Perché la Norvegia deve venderci i suoi 120 miliardi di metri cubi di gas all’anno a un prezzo molto più alto di quello a cui lo vendeva prima dell’invasione russa in Ucraina?» .
Un’ultima domanda. Tornando ai contratti di Gazprom del 2005, è vero che l’Eni avrebbe dovuto lasciar vendere 3 miliardi di metricubi a una holding viennese partecipata fra gli altri da Bruno Mentasti, un imprenditore vicino a Berlusconi?
«Ne hanno scritto alcuni giornali. In realtà Mentasti non l’avevo mai visto e Berlusconi non me ne parlò mai.
Questa proposta non fu mai portata nel consiglio di amministrazione di Eni. E Mentasti, che non ha mai venduto un metro cubo di gas, si è voltato dall’altra parte, le poche volte che l’ho incontrato».