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 2023  marzo 17 Venerdì calendario

Su "La democrazia militarizzata. Quando la politica cede il passo alle armi" di Sergio Romano (Longanesi)

I primi vagiti del fascismo risuonarono nelle trincee della Grande guerra, sostiene Sergio Romano nel suo nuovo libro La democrazia militarizzata, in uscita il 21 marzo per Longanesi. La brutalità inenarrabile di quel conflitto, con masse enormi di militari impegnati e uno spargimento di sangue senza precedenti, portò a una svalutazione drammatica della vita umana e a una sostanziale legittimazione della violenza come metodo di lotta politica. Terminate le ostilità, rimase la mina vagante rappresentata dai reduci. «Molti — scrive Romano — avevano subito ferite, erano mutilati, stentavano a riprendere i ritmi di una vita consuetudinaria, ricordavano persino nostalgicamente il campo di battaglia».

Benito Mussolini sin dal 1914 aveva definito la propria posizione politica in riferimento alla guerra, scegliendo l’interventismo e rompendo i ponti con il Partito socialista, di cui era stato un dirigente di primissimo piano. Durante il conflitto aveva progressivamente radicalizzato la sua posizione in senso nazionalista, sposando le più estreme rivendicazioni territoriali. E la pace lo trovò pronto a raccogliere l’insoddisfazione di coloro che parlavano di «vittoria mutilata». Già nell’adunata di fondazione dei Fasci di combattimento, a Milano il 23 marzo 1919, indicò al suo movimento come nemici principali coloro che alla guerra si erano opposti e che ora invocavano una rivoluzione internazionalista come quella bolscevica della Russia: i suoi ex compagni socialisti.

Nel 1919 però la figura carismatica principale a cui guardava l’opinione pubblica nazionalista era il poeta Gabriele d’Annunzio, che con l’occupazione di Fiume (città contesa tra l’Italia e il nuovo Stato jugoslavo) mise in un enorme imbarazzo il governo di Francesco Saverio Nitti. In quell’impresa Romano individua parecchi ingredienti entrati nell’impasto tossico del fascismo, come «l’ostentato maschilismo, l’oratoria bellicosa e spavalda, un linguaggio che alterna volgarità e poesia, uno stile beffardo e piratesco».

L’esercito italiano a Natale del 1920 espulse da Fiume i legionari di d’Annunzio in base a un trattato concluso a Rapallo tra Roma e Belgrado, ma nel frattempo i fascisti avevano avviato la loro offensiva squadrista, cominciando dalla Venezia Giulia e dalla valle del Po. Confortato dall’appoggio della piccola e media borghesia, che vedeva nelle camicie nere la forza che poteva «meglio difendere i ceti medi contro la minaccia comunista», si sviluppò un possente partito armato, che di fatto metteva in discussione il monopolio statale della forza. E Mussolini lo usò con spregiudicatezza per le sue ambizioni di potere.

La marcia su Roma, cento anni fa, sancì il successo di quella strategia, grazie soprattutto all’atteggiamento compiacente del re Vittorio Emanuele III, che non firmò il decreto per lo stato d’assedio e conferì al capo del fascismo la guida del governo. Non a caso uno dei primi provvedimenti assunti da Mussolini come presidente del Consiglio fu la creazione di un nuovo corpo armato dello Stato, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, nella quale furono assorbite, non senza malumori, le squadre d’azione fasciste. Di fatto era la legalizzazione di un esercito di partito, il segnale chiaro dell’intento di costruire un regime.

Una seconda mossa fu la manomissione del sistema elettorale attraverso la legge Acerbo, dal nome del sottosegretario a cui Mussolini affidò l’incarico di prepararla. La riforma prevedeva che la lista maggioritaria ottenesse i due terzi dei seggi della Camera (il Senato non era elettivo, ma di nomina regia) purché raccogliesse almeno il 25 per cento dei voti. Ne risultò nel 1924 un’assemblea nettamente dominata dai fascisti, che con il cosiddetto «listone», comprendente anche molti fiancheggiatori della destra liberale e cattolica, avevano raggiunto il 60 per cento dei suffragi.

Il leader socialista Giacomo Matteotti denunciò con forza le irregolarità e le violenze che si erano verificate in gran parte d’Italia: fu rapito e ucciso, forse anche perché si apprestava a denunciare uno scandalo in cui erano coinvolti ambienti vicini al capo del governo. Il delitto mise inizialmente in difficoltà Mussolini, ma il superamento della crisi portò alla fine delle residue libertà e all’instaurazione della dittatura. La militarizzazione della politica era giunta alle sue estreme conseguenze. E l’ascesa del fascismo, ricorda Romano, divenne un modello per altri movimenti europei a vocazione totalitaria.

Il libro si presenta come una riflessione sul passato, ma compie anche rapide incursioni nel presente. Non preoccupano particolarmente Romano le nostalgie del fascismo che ancora emergono nel nostro Paese, fenomeno che a suo avviso riguarda gruppi dal seguito limitato e di corto respiro. Quanto a Giorgia Meloni, scrive, non è arrivata alla presidenza del Consiglio «perché ha un passato fascista, ma perché è riuscita a sbarazzarsene».

Ciò non significa che la democrazia goda di buona salute nella nostra epoca di crisi, guerre e populismi. Quando cresce il distacco tra governanti e governati, quando vaste fasce della popolazione sperimentano un peggioramento significativo del loro tenore di vita, la violenza ridiventa un’opzione possibile, specialmente dove le armi circolano in abbondanza. Gli eventi del 6 gennaio 2021 a Washington, osserva Romano, sono un campanello d’allarme da non sottovalutare, anche perché si sono verificati «nella maggiore democrazia del mondo»: Donald Trump, sconfitto alle elezioni, «non ha rinunciato a tentare la riconquista del potere con le armi». Anche se il colpo di forza è fallito, il ricordo dell’invasione del Congresso americano desta tuttora una giustificata inquietudine.