Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 08 Mercoledì calendario

Anselm Kiefer, tra parole e mostre

L’Italia è il mio Paese preferito. Sono stato a Napoli molte, molte volte e una volta persino a Roma per sei mesi. L’Italia mi ha sempre accolto in modo speciale e mi ha percepito più intensamente rispetto, ad esempio, al mio Paese d’origine.
Quando un pittore inizia a scrivere, il detto di Goethe: «Crea artista! non parlare!» risuona ancora.
Durante tutta la mia vita ho sempre vissuto nel conflitto se preferire diventare un pittore o uno scrittore. La decisione è stata resa ancora più difficile, tra l’altro, dal fatto che all’età di sedici anni ricevetti un prestigioso premio per il mio diario e il papa letterario dell’epoca, Walter Jens, scrisse una recensione cautamente positiva.
Da allora pubblico a volte qualcosa, ad esempio se mi viene chiesto di scrivere sugli acquerelli di Emil Nolde o su altri artisti. Ma ogni volta il risultato è deludente, perché quando un testo viene stampato diviene definitivo e allora non posso più procedere nello scritto come faccio con i miei quadri. Questi li posso mettere in discussione in qualsiasi momento, distruggerli e resuscitarli. Perché solo un iconoclasta è un bravo artista.
Lo si vede ora dai frammenti della mostra da Lia Rumma: ho rinunciato, a creare uno chef d’oeuvre. Un quadro è per me sempre e solo una condizione momentanea in un lungo percorso di delusioni, distruzione e resurrezione, segnavia in un lungo percorso senza fine.
Le tele che potete vedere lì sono rimaste chiuse in container nel corso del tempo. Ora le ho tirate fuori di nuovo, le ho stese per terra nel mio studio, e poi le ho danneggiate nel modo più brutale, esponendole agli acidi, alla pioggia, etc...
Ed ecco: dalle macerie sono sorte all’improvviso montagne, montagne dove Giovanni Segantini mi è apparso come un raggio di luce e le sue ultime parole sul letto di morte echeggiano nella mia mente: «Voglio vedere le mie montagne».
Ho conosciuto Segantini presto, da studente, e l’ho percepito in modo molto differente nelle diverse fasi della mia vita.

desc img
«Die Windsbraut» (2015-2020)
All’inizio – quando ancora studiavo giurisprudenza – mi interessava il divisionismo, utilizzato da Segantini ma inventato da Seurat. Per me questo modo razionale di dipingere è stato il contrappunto salvifico alla mia confusione di allora. Poco dopo, però, ho realizzato che questo metodo era per me come una parodia della pittura; questa attenzione ai dettagli era come lavorare all’uncinetto o a maglia.
In seguito, fui attratto piuttosto dalle metafore, dal pathos, dai suoi pensieri resi visibili. Dal suo desiderio di salvezza attraverso la natura, che è essa stessa irredenta. La sua devozione arcicattolica per Maria mi colpì particolarmente, dato che da giovane ebbi una vera e propria apparizione mariana.
Ancora oggi apprezzo molto le opere di Segantini, ma le vedo da un punto di vista più libero, più come una meravigliosa cava da cui attingere, le cui pietre con i loro poteri intrinseci obbediscono a leggi autonome. L’attento ascolto delle pietre da parte di Segantini, il ricorrere alle montagne, l’identificazione con esse si ritrova in poeti come Hans Henny Jahnn e Adalbert Stifter. In una delle mie prime interviste con Beuys, ho commentato una volta in contrapposizione alle sue asserzioni politiche: non solo le persone hanno una coscienza, ma anche le pietre.
E così i quadri di montagna di Segantini possono essere interpretati nei modi più svariati.
Spesso sono le immagini di alte vallate, non quelle di abissi o di cascate, in cui avviene l’unione fra la natura e l’uomo. Sono cime senza gole, ciò significa un’altezza assoluta senza la relativa profondità. C’è sempre qualcosa di sublime e pacifico in queste immagini. Le persone in esse rappresentate, confinate nella loro semplicità, nella loro povertà conferiscono ai quadri qualcosa di atemporale.
Ma in alcune opere sembra trasparire qualcos’altro: una contraddizione. Le montagne, che appaiono immortali vicino ai mortali, mostrano allo stesso tempo transitorietà. Ad esempio, il quadro con la Pietà: la salma non giace sul grembo di Maria, bensì il corpo mortale di Cristo appare già come un cadavere che sarà consumato dai vermi. Un’immagine di caducità, così come le montagne non sono statiche, ma vengono logorate dall’erosione non appena si ergono.
Si sa, e doveva saperlo anche Segantini, che le Alpi si sollevano un po’ ogni anno per la deriva dei continenti, ma l’altezza delle montagne diminuisce di nuovo nella stessa misura a causa dell’erosione. Quindi si dimostrano effimere quanto noi umani. Ciò che distingue la cresta della montagna dalla falena e dal verme è solo un periodo più lungo di decadimento. È la contraddizione tra persistenza e caducità che vediamo negli altipiani di Segantini. Vi è qui una connessione tra l’umano, l’animale e l’inorganico. Una sorta di tenerezza cosmica. Nei quadri di Segantini vediamo un paradiso perduto, una lontana Terra Promessa.
Con Giacometti, che fu amico di Segantini, è ben diverso: nelle sue figure vediamo delle scalfitture, come grumi che si sono staccati da massicci montuosi, come strutture assemblate da detriti e poi di nuovo tracce dell’asportazione della materia. L’utopia di Segantini, l’armonia e il rapporto infantile con la natura, diventa in Giacometti verità, entropia.
E così quest’ultima espressione di Segantini non mi appare come qualcosa di definitivo, ma come qualcosa di prossimo, come una novità, come un nuovo fronte, come il «Principio Speranza» di Ernst Bloch.
I quadri esposti da Lia Rumma, sono ormai rimasti nel limbo, si possono ancora ridipingere in un modo o nell’altro. Così come Segantini spesso ridipingeva parti dei suoi quadri.
Infine: forse i miei quadri mancati sono stati riscattati non solo dalle ultime parole di Segantini, ma anche dal ricordo di un’opera del mio maestro Joseph Beuys a Eindhoven. Perché le idee sono nell’aria che ci circonda e si depositano dove vogliono.
A Eindhoven, Beuys ricreò le Alpi partendo da oggetti di uso quotidiano. Un armadio divenne un ghiacciaio, una cassapanca e uno sgabello una roccia e un letto una valle. Ho potuto vederlo al Van Abbemuseum quando ho tenuto lì una mostra negli anni Ottanta.
(Traduzione di Dionisia Boscolo)