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 2023  febbraio 08 Mercoledì calendario

Il febbraio del 1933

All’inizio degli anni Trenta del Novecento si chiuse in Germania un ciclo apertosi all’indomani della Grande guerra e che aveva avuto nella Repubblica di Weimar la sua ragion d’essere politica. In Febbraio 1933 (Marsilio, pagg. 303, euro 19, traduzione di Isabella Amico di Meane e Giovanni Targia), Uwe Wittstock racconta, attraverso un’abile opera di montaggio che incastra fra loro una trentina di personalità della scena culturale tedesca, come nel giro di appena un mese il neonominato cancelliere Adolf Hitler spazzi via, a colpi di decreti avallati dalla presidenza Hindenburg, i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e trasformi quella repubblica in una dittatura. «L’inverno della letteratura» recita il sottotitolo del saggio, perché «mai prima di allora così tanti scrittori e artisti hanno lasciato il proprio Paese nel giro di così poco tempo», da Thomas Mann a Bertolt Brecht, da Alfred Döblin a George Grosz, per citare i nomi più conosciuti. Wittstock sottolinea altresì come la presa del potere da parte di Hitler sia dovuta a più fattori: l’estremismo partitico, la propaganda infuocata, il terrore da guerra civile, la debolezza del centro politico, la miseria causata dalla crisi economica mondiale. Ne tralascia uno che però li racchiude tutti e che può essere riassunto nelle parole di un illustre storico dell’epoca, Hans Delbrück: «Servire la repubblica non vuol dire amarla». In sostanza, Weimar non piaceva a nessuno. Che non piacesse a destra, era comprensibile: schematizzando, era l’emblema della sconfitta e insieme della decadenza, il trionfo della Zivilisation sulla Kultur. Più complesso è capire perché non piacesse a sinistra. Ci si scagliava contro la sopravvivenza della vecchia burocrazia e del potere giudiziario, si riteneva un’offesa il peso, per quanto ridotto, dell’esercito, veniva giudicata troppo diversa rispetto a quanto sognato allorché era nata, si sparava a alzo zero contro ogni alleanza, ogni compromesso, ogni accordo parlamentare. Come ha scritto Walter Laqueur in quel classico che è La repubblica di Weimar, gli scrittori di sinistra che animavano quest’ultima, «estranei nel Paese natio, erano per di più incapaci di riconoscersi nell’uno o nell’altro dei due grandi partiti socialisti. Per loro era la stessa cosa prendere a bersaglio Adolf Hitler oppure un qualsiasi malcapitato ministro socialdemocratico». Infine, il parlamentarismo rimaneva, a destra come a sinistra, un corpo estraneo. A questo proposito, in Febbraio 1933 Wittstock riporta le parole con cui, all’indomani della nomina di Hitler, il commediografo George Kaiser liquida le preoccupazioni del suo editore: «Un club di bowling cambia la sua presidenza», ovvero «il teatrino di quart’ordine della politica fa parte degli aspetti seccanti della realtà che lui finge di non vedere». Non è il solo a non vedere, meglio a non capire. Thomas Mann cade nello stesso errore, con un’aggravante che è insieme una scusante. Prima della guerra le sue Considerazioni di un impolitico sono state il manifesto della Kultur tedesca contro la Zivilisation cosmopolita, la specificità e per certi versi la superiorità della Germania rispetto alle altre culture e ai loro valori, democrazia inclusa. Ha cambiato idea all’indomani della sconfitta, ma, come scrive Wittstock, «per ragioni politiche più che estetiche». Era rimasto inorridito «dalla violenza nazionalista dei primi anni del dopoguerra, che aveva provocato assassinii e tentati colpi di Stato». Da qui una sua riscoperta del «nucleo dell’idea democratico-repubblicana, ovvero la risoluzione pacifica dei conflitti, tramite compromessi», un germanesimo da lui inteso come «liberale nel senso più umanitario, mite nella sua civiltà, dignitoso nel suo amore per la patria». In quel febbraio del 1933 ha tenuto a Monaco la sua grande conferenza su «Dolore e grandezza di Richard Wagner», dove lo ha definito «un socialista, un utopista culturale», persino «un bolscevico della cultura, come oggi sarebbe detto»... Due mesi dopo, quando Hitler ha ormai in mano i pieni poteri, tutto questo gli viene rinfacciato in una lettera aperta firmata fra gli altri da Richard Strauss e Hans Pfitzner che in fondo lo rimbeccano con le sue stesse idee dei tempi della Considerazioni di un impolitico... Nel chiuso del suo studio, davanti alle pagine del suo diario, Mann si interroga su come e quanto sia possibile andare d’accordo con quello che è ora il nuovo regime al potere: «La rivolta contro l’elemento ebraico potrei capirla entro certi limiti, se l’elemento tedesco non ritenesse così allarmante l’aver perso il controllo a causa dello spirito ebraico, e se i fanatici del carattere tedesco non fossero così stupidi da gettare uno come me nella stessa risma, cacciandomi insieme agli ebrei». Quell’«uno come me» è una spia interessante per cercare di capire sia l’iniziale cecità di fronte all’hitlerismo, sia la lenta quanto contorta presa d’atto, fra compromessi, viltà e eroismi, di ciò che esso andava via via rappresentando. Nessuno l’ha detto meglio di Martin Niemöller, che era un teologo e un uomo di punta della Bekennede Kirche luterana, la cui religiosità suonava come una sfida al nazismo, ma che era stato nella Grande guerra un valoroso comandante di sottomarini, poi un membro dei Corpi franchi, infine un iniziale sostenitore del regime. Sino al 1937 tutto ciò lo aveva protetto, poi anche per lui si aprirono le porte del lager. La poesia-preghiera di Niemöller recita: «Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo. /Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa». In Febbraio 1933 emergono con grande chiarezza due cose. La prima è l’altissimo tasso di violenza politica che percorre quel mese. Giorno per giorno Uwe Wittstock stila una sorta di bollettino dei caduti in risse, agguati, regolamenti di conti, manifestazioni politiche. A spanne, mettendo da parte i feriti, gravi e non gravi, gli sfortunati passanti, qualche caso di semplice malavita, restano sul terreno 21 nazisti e 27 fra comunisti e socialisti, in media più di un omicidio politico al giorno. L’altra cosa è l’estrema quanto rapida spietatezza con cui Hitler prende il potere. Lo fa dall’interno, svuotandolo legalmente: ha imparato la lezione, rispetto al suo fallito putsch di un decennio prima, lezione di cui invece i comunisti della precedente e altrettanto fallita insurrezione spartachista non hanno fatto tesoro. Degli esuli di quell’anno e degli anni seguenti, Wittstock dà conto in rapide biografie finali. Curiosamente, ma non troppo, quelli più a sinistra, Grosz, Brecht, Ernst Toller, Erwin Piscator, preferirono Roosevelt a Stalin, ovvero il capitalismo al comunismo. Sarà così anche per l’intera famiglia Mann, anche se poi il suo capostipite, Thomas, opterà nel dopoguerra per la Svizzera. Wittstock dà anche conto di alcuni di quelli che rimasero, Gottfried Benn, Carl von Ossietzky, Ricarda Huch, per fare solo i nomi di chi da quel non partire non ricevette onori, ma dolori. Quello della cosiddetta «emigrazione interna» è un tema che esula da questo libro, e però è un tema fondamentale per capire gli scrittori e la Germania dell’epoca. Chi ne voglia sapere di più deve leggere il saggio di Marino Freschi Germania 1933-1945: l’emigrazione interna nel Terzo Reich (Aragno, 2019), esemplare nel dare conto di questo amore «radicato» per la terra tedesca e per la lingua materna e fondamentale per il recupero di grandi scrittori ingiustamente dimenticati: Hans Carossa, Ernst Wiechert, Stefan Andres, tutti rappresentativi, oltre che di una «catastrofe» tedesca, di un destino tedesco.