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 2023  febbraio 04 Sabato calendario

Intervista a Ermanno Cavazzoni - su "Il gran bugiardo" (La nave di Teseo)

Nulla è più sincero della falsità. Lo scriveva Giorgio Manganelli in quelle sue esilaranti interviste impossibili, una massima che è quasi un aforisma, quasi un verso. A svilupparlo ci ha pensato lo scrittore romagnolo Ermanno Cavazzoni, già finalista al Premio Campiello nel 2018 che ora, per La Nave di Teseo, firma Il gran bugiardo, un titolo che non prevede sorprese. Racconta infatti di un bugiardo compulsivo. Il protagonista del nuovo romanzo è inaffidabile addirittura per quello che dovrebbe essere il suo vero nome: Nic, Nicola, Nicola XY, non si capisce, ma poco importa. Tanto di nomi ne assumerà molti e a ognuno corrisponderà una diversa persona, un differente temperamento e, naturalmente, anche diversi amori, per quanto le due donne tra cui rimbalzerà diano vita a una unica donna ideale. Siamo di fronte a un testo lineare che apparentemente potrebbe sembrare piuttosto realistico, in fondo esistono davvero dei bugiardi maniacali. Ma è difficile pensare a Cavazzoni senza un tocco di surrealtà, o meglio, senza quel tocco di genio inventivo e visionario che ci fa scorgere meglio la realtà stessa. Infatti non siamo di fronte a un manipolatore, a un maligno truffatore che mira a ingannare il prossimo. Niente affatto. Che sia Nic, Luc, Oscar o Olindo Olgiati-Parenti, il nostro scivola nei molteplici ruoli e nelle infinite menzogne con un candore niveo. Per cui anche se il profilo che va a interpretare è quello dello scrittore piuttosto che del direttore d’orchestra, per un attimo ci crediamo pure noi, più che altro trascinati dalle sue fantasie allucinate, che spesso lo fanno ragionare e parlare come fosse davvero uno scrittore, un musicista o un medico. Insomma si tratta di un bugiardo schiettamente sincero, a differenza di tutti gli altri personaggi che sinceri non lo sono affatto, con però la presunzione di esserlo. D’altra parte niente di più simile alla vita, la differenza sta sempre lì, tra consapevolezza e inconsapevolezza, e di certo a nessuno fa comodo giudicarsi un ipocrita. Nic lo sa, ma gli altri? Certo è che le loro bugie hanno il preciso scopo di ingannare, e non di compiacere. Il nostro invece, se mente, lo fa per amore, poco importa se verso una donna, i genitori o due povere anziane. Insomma Cavazzoni, come sempre, sovverte le logiche. Lo fa attraverso questo multiplo sdoppiamento di personalità (ed effettivamente, tra le diverse inclinazioni del nostro spirito, qual è quella vera?), così come nel precedente romanzo lo aveva fatto attraverso un mondo postumano, una sorta di avveniristica confusione che ci riporta a una realtà pregressa, cioè la nostra. Anche quest’ultima opera non manca di fantasia, e va sottolineato proprio perché la fantasia e la lingua dovrebbero essere le matrici della letteratura. Non la storia. Non la psicologia. Cavazzoni, forte di energici maestri, si è inventato la sua lingua, una poetica che riesce a evocare schiette metafore della realtà, ma non solo. Una realtà che si destreggia tra lieve comicità e pensiero, che trova sempre un perfetto equilibrio tra detto e non detto. In questo caso si potrebbe tirare in causa pure Umberto Eco e la sua “teoria della menzogna”, lì dove il filosofo sosteneva che tutto ciò che non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto, non può essere usato per dire nulla. Cavazzoni si inventa uno specchio letterario per riflettere, capovolto, quel principio semiotico: tutto può essere usato per mentire e tutti lo fanno spesso. Infatti si ha sempre molto da dire, per ingannare gli altri.

Intervista a Ermanno Cavazzoni di Mary B. Tolusso

Vero. Falso. Eterno binomio di un dualismo instabile, che va poi ad alimentare ogni dettato. Lo sa bene Ermanno Cavazzoni che con le presunte verità ha sempre giocato a ideare trame che mostrano il mondo qual è, pur rovesciandolo. Il suo ultimo protagonista però si concentra sulla falsità, mentire per lui è quasi normale, eppure pare di stare di fronte a un individuo davvero ingenuo, scevro da ogni manipolazione programmata, insomma un gran bugiardo sincero.

Nietzsche diceva che c’è anche una sorta di candore nella menzogna: è il caso del suo protagonista? Perché talvolta pare mentire a prescindere dalla sua volontà…
«Sono i casi che mi piacciono molto pure nella vita, me ne sono capitati intorno parecchi. Quando uno scivola dentro a una menzogna, in un certo senso lo fa per compiacere l’altro, per apparire come l’altro desidera. Quindi non è una vera e propria truffa calcolata a tavolino, di quelle ce ne sono continuamente nel mondo, si tratta piuttosto di scivolare in qualcosa che diviene infine un castello di carta sempre più pencolante e a rischio».

D’altra parte anche Manganelli ha scritto che «nulla è più sincero della falsità».
«E in un certo senso è vero perché lo stesso mentitore subisce la sua menzogna».

La sua comicità ha qualcosa di nobile, è misurata, emerge sempre da un rovesciamento della realtà, quasi alla Pennac, ma c’è anche un sapore classico, penso alle Satire di Ariosto.
«Che meraviglia, intendo Ariosto, di cui mi sono anche occupato in passato. La parola “satira” oggi è svalutata, si tende ad associarla alle imitazioni televisive dei comici, mentre “satira” è una parola molto nobile, antica, un genere letterario che inizia da Orazio, Giovenale, Persio fino ad Ariosto, Swift; era un genere che prevedeva il parlare del quotidiano. Così le Satire di Ariosto sono una sorta di autobiografia, parlano dei suoi problemi con un risvolto comico che tende a capovolgere il mondo toccando ciò che si dà per scontato, quando di fatto sono cose assurde. Vorrei appartenere proprio al genere della satira dove la leggera comicità è spalmata su tutto il testo».

Il suo bugiardo assume molteplici ruoli, scrittore, direttore d’orchestra, medico, che sia arte o scienza quasi tutti gli credono, c’è forse anche un’allusione alla noncuranza dell’epoca? Cioè alla confusione in cui viviamo, per esempio recepire come letteratura ciò che non lo è? O scambiare un santone per uno scienziato?
«Questo esiste, ma devo aggiungere che i mentitori o i truffaldini sono personaggi più interessanti di quelli che dicono la verità, almeno in letteratura. Per la narrativa il mentitore è un profilo notevole proprio perché è come se vivesse sull’orlo di un precipizio, c’è la possibilità che tutto crolli. Quindi è un’esistenza piena di tensioni e angosce, narrativamente molto più ricca di un personaggio che dice semplicemente una verità. Come scrisse Tolstoj, le famiglie disgraziate sono tutte diverse e quindi a livello di inventiva letteraria molto più interessanti».

E le donne? Sia Ester che Mirta non sembrano spronate da nobili pensieri.
«Sono mentitrici pure loro. Tutti i personaggi hanno la loro dose di menzogna. Ester ha il fidanzato e lo tradisce, mente su quello che fa, ma anche gli altri fingono, fino al re di tutto questo che è il protagonista».

Che mi dice della sua esperienza nella rivista letteraria Il semplice. Oggi è ancora possibile ideare un fascicolo di pura letteratura?
«È difficile perché oggi c’è Internet, allora non esisteva. Internet assorbe moltissime cose. La carta stampata transitoria, qual è una rivista, è stata soppiantata dal web, estremamente transitorio ma molto più diffuso. L’esperienza de Il semplice è stata una cosa bellissima, credo abbia lasciato il segno su tutti coloro che hanno partecipato. Era una rivista ideata da Gianni Celati e altri romanzieri, come Ugo Cornia e Daniele Benati, sono usciti da questa piccola palestra che nasceva in un contesto molto amicale, ma anche di discussioni molto accese, letture ad alta voce, quindi letture intonate. Celati è stato importantissimo, sia umanamente che artisticamente, è una persona da cui ho imparato moltissimo, come da Fellini».

Infatti lei ha collaborato con Fellini per il film La voce della luna, ispirato al suo Il poema dei lunatici. Cosa le è piaciuto del cinema?
«Per il cinema ho sempre avuto un’enorme ammirazione perché è stata ed è tutt’ora la grande arte del ’900, la più popolare, ne può godere un ignorante come una persona istruita. Fellini, prima ancora di conoscerlo, lo consideravo un regista eccezionale. Quando l’ho incontrato c’è stata un’istintiva e reciproca simpatia, lui diceva che eravamo come due compagni di classe ma lui era un ripetente, dal momento che era più grande. Da Fellini ho appreso molto, aveva intuito, humor, come tutti i suoi film, questo tipo di sensibilità ci legava tantissimo, pure a me piace metterla sul ridere, anche le cose più serie. Eravamo insomma sulla stessa onda mentale».

A più riprese ha descritto, a suo modo, la figura dello scrittore. Penso a Gli scrittori inutili ma anche a Vite brevi di idioti dove l’artista è ironicamente indicato come individuo vizioso o un po’ folle. Szymborska scrisse che di fatto la vita dello scrittore e del poeta è alquanto noiosa. È d’accordo?
«Sì è verissimo, le mitologie, soprattutto quelle cinematografiche dove lo scrittore pare abbia una vita intensa, sono solo un immaginario. Lo dicevo proprio a Fellini: la mia vita viene dai monaci amanuensi che passavano la giornata a copiare i testi antichi, mentre un regista, gli dicevo, è come un capitano di ventura che deve conquistare una città e quindi invidiavo molto il suo mestiere».

Effettivamente uno scrittore deve essere disciplinato…
«Ma anche solitario».

A proposito di autori, c’è un poeta delle sue parti, il bravo Raffaello Baldini, che spesso ci ha proposto un mondo sospeso, un mondo confusionario e labirintico che pare un inferno terrestre, per certi aspetti mi ricorda la sua Galassia dei dementi e non solo. È giusto dire che in entrambi c’è un rovesciamento di prospettiva che porta a galla i luoghi comuni?
«In Baldini di sicuro. Le sue poesie sono in gran parte lievemente comiche, sono delle satire nel senso più classico. Oltre alle poesie questo tema è presente nel monologo In fondo a destra, dove descrive una specie di aldilà che forse anch’io ho un po’ frequentato. In Baldini ritorna spesso, anche nel testo La Fondazione affronta il tema di un uomo anziano sulla soglia dell’aldilà, mentre in In fondo a destra c’è un aldilà immaginato che non assomiglia a quello di Dante».

No infatti, assomiglia all’aldiquà.
«Esatto, assomiglia all’aldiquà, come in quel film ideato da Fellini ma mai realizzato, Il viaggio di G. Mastorna, la sceneggiatura è stata pubblicata nella collana che curo per Quodlibet. La parola “Mastorna” nel dialetto romagnolo ha una chiara connessione fonica a “ma si torna”, sottinteso dall’aldilà appunto. La trama prevedeva un Mastroianni che a causa di un incidente aereo trapassa nell’aldilà, ma non si accorge di nulla perché l’aldilà è uguale all’aldiquà. È un tema che c’è sia in Baldini che in Fellini, forse in altri autori, e produce una visione totalmente diversa di questa fantasia che è l’aldilà».

Forse è presente anche nella sua opera questa dimensione ibrida e sospesa…
«Forse sì, ne La galassia dei dementi propongo un mondo “dopo uomo” confusionario e labirintico».

Tornando a Il gran bugiardo assistiamo alla storia di un individuo ossessivamente visionario che comunque fila con la realtà. Non trova che la fantasia, la stessa letteratura fantastica o fantascientifica sia spesso più realistica dei romanzi storici?
«O dei romanzi un po’ psicologici. Le cose inventate spesso dicono più verità sulla realtà rispetto alle cronache. Pensi per esempio a Il dottor Jekyll e mister Hyde, un romanzo di pura fantasia ma anticipa lo sdoppiamento dell’uomo contemporaneo, la psicoanalisi, l’inconscio… però nasce da una fantasia narrativa. Oppure pensiamo a 1984 di Orwell».

Spesso si sente dire che Internet in genere, i social in particolare, siano le cause del decadimento linguistico. Lei che ne pensa?
«A me pare che la lingua sia una cosa potente, indomabile, alla quale non si possono dare orientamenti, un esempio è il fascismo che ha tentato di sostituire le parole straniere con parole italiane alquanto comiche. La lingua muta, si adatta, ma è energica – perché è la lingua che ci fa essere umani – continuamente perde e si arricchisce, non si esaurirà mai. Certo può essere usata anche negli sms, che sono impoverenti come lo erano i telegrammi, ma è solo un modo di parlare contestualizzato, così come c’è la lingua del medico o della burocrazia. È solo un registro in più».

Lei è iscritto ai social?
«Ho provato a iscrivermi a Instagram ma ora ho smesso di frequentarlo, ciò che mi compariva erano solo foto di persone che avevano fatto un bel viaggio».

Ci sono social più creativi, Facebook potrebbe assomigliare al suo gran bugiardo, tutti dicono la verità fingendosi qualcun altro. Cambiando discorso: qual è lo stato di salute della letteratura in Italia?
«Ci sono cose belle e cose orrende, come ci sono sempre state. Nell’800 si scrivevano più poesie e infatti sono state prodotte masse imponenti di scemenze in versi. È come nel calcio, una nazione produce una grande squadra se ci sono centomila campetti parrocchiali e poi vengono selezionati i migliori. Quindi a mio avviso va bene che anche la palestra letteraria si allarghi, infine qualcosa sopravviverà».

I suoi protagonisti portano anche nomi di antichi eroi o di figure mitologiche come Xenofon, Leonida, Cassandra, Dafne…
«Amo moltissimo i classici, ma devo confessare che i nomi mitologici mi sono stati suggeriti anche dai rimorchiatori di navi, hanno sempre questi straordinari nomi classici, tipo Ursus, per dare l’idea della forza. In ogni caso ho sempre letto moltissima letteratura greca e latina, forse perché dall’antichità sono sopravvissute le cose migliori con tutte le selezioni secolari che hanno subito, quindi si finisce per leggere sempre capolavori. Tuttavia considero tali anche autori dell’800 e anche il ’900 italiano ha ormai i suoi classici».

Chi?
«Direi Svevo e Pirandello. Libri che possono stare alla pari della grande letteratura internazionale».