Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 04 Sabato calendario

L’era della non-pace

Ci eravamo illusi che la globalizzazione sarebbe sfociata nell’epoca della pace perpetua e invece, come recita il titolo del libro di Mark Leonard, direttore dell’European Council on Foreign Relations, siamo finiti nell’Era della non-pace. E la ragione sta nel sottotitolo: Perché la connettività porta al conflitto.
Insomma, ci avevano detto che la storia era finita, che il mondo era piatto: che cos’è andato storto?
«Le forze che stavano avvicinando il mondo, che dovevano mettere fine alla storia e creare una comunità globale, hanno un gemello malvagio che ci allontana gli uni dagli altri e crea tensioni e vulnerabilità. Questa è la vicenda degli ultimi anni: tanti trend, che vedevamo come interamente positivi, hanno finito per avere l’effetto opposto. Se pensiamo alle spinte che dovevano mettere fine alla storia, al termine della guerra fredda, il primo era il commercio: e questo ora è diventato un terreno di battaglia con sanzioni e controlli tecnologici. Se pensiamo alle migrazioni, che dovevano creare un villaggio globale, hanno portato invece a tensioni per il modo in cui cambia la demografia dei Paesi di arrivo; ma è anche stata trasformata in un’arma politica, come ha fatto Vladimir Putin. La tecnologia e internet dovevano creare un mondo unito ma alla fine abbiamo visto polarizzazione e frammentazione. Le fondamenta della globalizzazione sono state trasformate in armi».
Lei scrive quindi che la distinzione fra guerra e pace è ormai obsoleta.
«Queste forze della globalizzazione ci hanno dato un insieme di armi che non avevamo prima. È per questo che la distinzione è obsoleta, perché prima il modo di avere conflitti si concentrava attorno a territori, ma ora si possono avere conflitti senza coinvolgere soldati, trasformando le forniture di energia, i rapporti commerciali, i movimenti delle persone in armi. Questo significa che hai conflitti permanenti: non è come ai tempi di Lev Tolstoj, quando avevi un periodo di pace seguito da un periodo di guerra seguito da un altro periodo di pace. Ora puoi non avere una guerra formale ma allo stesso tempo, invece di una pacifica età dell’oro, hai tante tensioni e conflitti: per questo il modo migliore di capire dove ci troviamo adesso è tramite questa “non-pace”, termine che mostra come la distinzione sia scomparsa e sia difficile immaginare di vivere in uno stato di ordine, perché le stesse relazioni che abbiamo gli uni con gli altri vengono trasformate in armi».
Perché la guerra in Ucraina è l’incarnazione dei conflitti di connettività?
«Quello in Ucraina a un primo livello appare come un conflitto alla vecchia maniera, con carri armati e immagini che sembrano uscite dalla Prima guerra mondiale: ma allo stesso tempo il modo e le ragioni per cui si combatte sono totalmente differenti. Ciò che ha causato la guerra è stata la connettività, la connessione dell’Ucraina con l’Occidente: la guerra è cominciata in realtà nel 2014 con l’annessione della Crimea, e ciò che l’ha provocata è il fatto che Kiev volesse firmare un accordo di associazione con l’Europa. Ma ancora più importante è che il modo in cui la guerra viene combattuta ruoti attorno a tecnologia e connessioni: il campo di battaglia è trasformato, è una guerra di tecnologie e intelligence, gli ucraini usano le app sul telefono, usano i satelliti, i droni sono manovrati dall’intelligenza artificiale come nei videogame. Guardando oltre i campi di battaglia, la maggiore pressione esercitata sulla Russia è stata attraverso le sanzioni e i controlli sulla tecnologia, mentre la risposta russa è stata fatta tramite cyberattacchi, manipolazione dei prezzi dell’energia e milioni di rifugiati. È un conflitto del XXI secolo, oltre che un conflitto dell’Otto-Novecento».
Anche questa guerra finirà con uno stato permanente di non-pace?
«È molto difficile vedere come si possa arrivare a un trattato di pace formale fra Kiev e Mosca ma, pure se fosse possibile, non si potrebbe impedire alla Russia di provare a corrompere, diffondere disinformazione, intervenire nei mercati energetici: questi strumenti restano. Dal lato euro-americano le multinazionali si sono ritirate dalla Russia né credo che torneranno. Quindi questo livello di tensione continuerà: perciò sarà molto difficile per gli europei tornare al mondo in cui vivevamo prima del 24 febbraio 2022».
Proprio l’Europa aveva scommesso più di tutti sulla portata benefica della globalizzazione: deve ripensare il suo ruolo?
«La guerra ucraina è molto dolorosa per i cittadini europei perché si tratta di una crisi filosofica e intellettuale, oltre che umanitaria. La Ue è un progetto di pace disegnato attorno all’idea di rendere la guerra impossibile, ma ora l’integrazione europea è spinta avanti dalla guerra. Questo passaggio da progetto di pace a progetto di guerra è molto difficile in termini politici, ma è anche una rivoluzione intellettuale. Non solo l’economia è diventata un’arma con le sanzioni, ma ora abbiamo un’economia di guerra, con pianificazione industriale e coinvolgimento dello Stato. Poi c’è la questione dell’interdipendenza, che pensavamo avrebbe trasformato i nemici in amici e avrebbe creato un mondo senza conflitti: ora abbiamo capito che l’interdipendenza ci apre a ogni tipo di vulnerabilità, ci mette in posizione di debolezza».
Un altro grande cambiamento è sull’idea delle regole.
«Esatto: credevamo di essere alla fine della storia, quando tutti convergevano verso il modello europeo, ma ora capiamo che ci sono tante idee su come il mondo dovrebbe funzionare, che il modello europeo è bellissimo ma compete con altri nel mondo, e ciò significa che invece di essere universalisti siamo diventati particolaristi, lavoriamo per preservare i nostri valori in un mondo che non li rafforza. Il sogno fatto nel 1989 è andato a male: bisogna reimmaginare come il mondo funziona e come il progetto europeo può collocarsi in esso».
Lei nel 2005 aveva scritto un libro intitolato Perché l’Europa guiderà il XXI secolo: questo suo nuovo lavoro sembra nascere anche da una grande delusione personale.
«Quel libro era una lettera d’amore al progetto europeo: ma nel 2016, l’anno della Brexit e di Donald Trump, ho visto che tutte le cose che mi sembravano meravigliose sono state interpretate dal 52% dei britannici come minacce, come cose che li rendevano più poveri e vulnerabili. Questo mi ha portato a cercare di capire come puoi avere due modi fondamentalmente differenti di comprendere le esperienze degli ultimi decenni. È interessante che i due Paesi più centrali nella globalizzazione, Gran Bretagna e Stati Uniti, siano quelli che hanno visto la più grande rivolta contro di essa. Sono giunto alla conclusione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato riguardo all’ottimismo dell’interdipendenza: non perché non creda che l’integrazione sia una cosa meravigliosa, ma c’è un lato oscuro, ed è il fatto che crea perdenti oltre che vincitori. Questo mi porta a pensare che abbiamo bisogno di una nuova politica: non costruire muri ma rendere l’interdipendenza sicura. Dobbiamo togliere il rischio dall’interdipendenza e mantenerne le cose buone: gli internazionalisti dovrebbero spingere per disarmare la connettività, togliere gli elementi tossici dall’interdipendenza. La divisione non dovrebbe essere fra nazionalisti e globalisti, ma fra connettività regolata e non regolata»