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 2022  dicembre 12 Lunedì calendario

Dietro la geopolitica

E se, come nel celebre gioco di società “Risiko”, il motore della Storia non fosse la marxista lotta di classe, ma la geopolitica? Attenzione, geopolitica non nel generico significato di “relazioni internazionali” dei decenni recenti. Bensì intesa come geografia, con le montagne, le pianure, i golfi, a determinare le dinamiche tra nazioni nel mondo?
La brutale invasione della Russia in Ucraina iniziata lo scorso febbraio ha riattizzato questa teoria, che ha motivato opinioni, opere e ricerche di molti studiosi negli ultimi decenni. Una su tutti: Prisoners of Geography, uscito nel 2015, di Tim Marshall, giornalista britannico ed esperto di relazioni internazionali. Per Marshall, sì, siamo «prigionieri della geografia». E il sanguinoso azzardo di Putin, dopo anni di amalgamazione internazionale e commerciale, ne è l’ennesima prova.
Di recente, Marshall ha scritto sulNew Statesman che il presidente russo «vuole l’Ucraina come zona cuscinetto, ma anche i suoi campi di grano, i metalli preziosi e il porto di Odessa sul Mar Nero, dove passa il 75% del commercio marittimo del Paese. Putin si alza la mattina, guarda questa mappa e sogna la Russia come una grande potenza che terrorizzi il mondo e che controlli le grandi pianure verso Ucraina e Polonia. Le mappe imprigionano certi leader più di quanto si pensi». Lo stesso zar, commentando «l’operazione speciale» in Ucraina, ha citato «realtà geopolitiche».
A tal proposito, Daniel Immerwahr, professore associato alla Northwestern University in Illinois, ha scritto giorni fa un illuminante articolo sul Guardian, con intriganti spunti. Per esempio: un po’ come l’avventata Fine della Storia del grande Francis Fukuyama, l’esperto americano Thomas Friedman scrisse nel 2005 che «il mondo è oramai piatto»e che due nazioni che hanno i fast food McDonald’s (come la Russia fino al febbraio scorso) non si sarebbero mai più fatte la guerra. Intendeva dire che la globalizzazione delle merci, delle idee e delle persone oramai travalicava ogni confine, fisico e soprattutto naturale. Non è così, secondo Immerwahr. Perché negli ultimi tempi il mondo ha visto leader, anche degli Stati Uniti come Trump, che hanno innescato la retromarcia su globalizzazione e interconnessioni senza confini. Perché i muri tra nazioni o popoli oggi sono 74 nel mondo, contro i 10 dopo la fine della Guerra Fredda. Del resto, crescono perfino nella capitale nordirlandese Belfast, dove c’è un accordo di Pace dal 1998 ma allo stesso tempo i confini geografici tra le comunità unionista e repubblicana sembrano sempre più invalicabili.
E dunque: nonostante il progresso, la tecnologia e la rediviva globalizzazione post Covid, siamo ancora prigionieri della geografia, comeGengis Khan nel XIII secolo? Non è un caso che i libri di studiosi a sostegno di questa tesi come Robert Kaplan, Ian Morris, George Friedman e Peter Zeihan siano tornati attuali, e in Italia l’ultimo libro del direttore di Repubblica Maurizio Molinari,Il ritorno degli Imperi (Rizzoli), racconti il nuovo ordine globale post guerra in Ucraina, in una drammatica sfida tra democrazie e autocrazie nel mondo, che può essere spiegata anche con la topografia e lemappe.
In un altro ammaliante excursus, Immerwahr ricorda un’altra opera, Origins di Lewis Dartnell, che racconta la geopolitica di Grecia, Persia, Assiri e molte altre civiltà antiche attraverso la posizione e la geologia delle placche tettoniche. Oppure, gli studi di Steven Dutch su un’ennesima affascinante faccenda, ossia, nel sud profondamente repubblicano degli Stati Uniti, i voti e le rivolte popolari democratiche a Montgomery in Alabama e lungo la “Black Belt” coincidente con le coste americane dell’era Mesozoica, quando gran parte degli Stati Uniti era sott’acqua.
Ma soprattutto, ecco le teorie del politico, accademico e stratega inglese Halford Mackinder (1861 – 1947) per cui la Storia nei secoli è stata soprattutto l’eterna lotta tra le popolazioni delle pianure dell’Eurasia contro quelle oceaniche, un conflitto che si è ripetuto anche nella Seconda guerra mondiale: «Chi controlla il centro, controlla le coste. Chi controlla le coste controlla il mondo». Una massima ripresa anche dai nazisti, tanto che Hitler parlò di «popolo tedesco imprigionato in un’area impossibile».
Pure la susseguente Guerra Fredda, secondo l’analista americano George F. Kennan, sarebbe stata mossa in realtà più dalla geopolitica che dall’ideologia a causa del «senso di insicurezza sovietico», sempre a causa di quanto accadeva nelle “pianure” a ovest del Paese. E la geografia, scrive Immerwahr, sarebbe contata moltissimo anche dopo. Se la prima Guerra nel Golfo, per esempio, vide la coalizione degli americani vittoriosa contro Saddam Hussein, il pantano della seconda guerra in Iraq nel 2003 e quella immediatamente precedente in Afghanistan (oltre ovvietà al Vietnam nel Secolo Breve) ha dimostrato che, nonostante i mezzi militari e tecnologici, la geografia dei territori è ancora determinante. E il mondo è tornato a “tre dimensioni” – e non a due, come in quello“piatto” degli ottimisti come Thomas Friedman.
«È la vendetta della geografia», l’ha battezzata Robert Kaplan e che purtroppo e in parte è avvenuta anche in Ucraina, secondo Marshall. Lo studioso britannico, per gli stessi motivi, riguardo alla Cina e alla sua montagnosa e desertica regione con una grande presenza musulmana, scrive: «C’è stato, c’è e ci sarà sempre tensione in Xinjiang». Anche se oggi, scrive Immerwahr, stati del Golfo come Dubai stanno sfidando «il destino della geografia», creando hub di investimenti, commercio e ricchezza dal nulla con i loro avveniristici e rivoluzionari progetti, vedi al porto di Jebel Ali, il più grande del Medio Oriente. Ma anche i cambiamenti climatici avranno un profondo impatto sulle future azioni umane. Insomma, secondo Immerwahr, le “vecchie mappe” sono fondamentali per capire il mondo anche di oggi, ma non sono sufficienti per il futuro.