Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  dicembre 04 Domenica calendario

Su "Si può solo dire nulla. Interviste" di Carmelo Bene (il Saggiatore)

A vent’anni dalla morte di Carmelo Bene, il 9 prossimo la casa editrice «il Saggiatore» manderà in libreria, nell’ambito della collana «La Cultura», un poderoso (sono oltre 1700 pagine) volume in cui si racchiude un’amplissima antologia di quanto è stato scritto sul gran Demiurgo dell’Assenza. S’intitola, e mai titolo fu più bello e significante insieme, «Si può solo dire nulla».

Il volume si divide in quattro sezioni: «Gli anni di galera. Le cantine e il cinema», «Il grande teatro. Dal grande attore alla stagione concertistica», «Il teatro senza spettacolo. La phonè, la macchina attoriale e la Biennale» e «Le suite impossibili. Il ritorno e il classico». La cura è di Luca Buoncristiano e Federico Primosig. E il primo, che fu chiamato dalla fondazione L’Immemoriale, voluta dallo stesso Bene con testamento, a catalogare l’immenso lascito artistico contenuto nell’eremo romano del divino Carmelo, in via Aventina 30, così, fra l’altro, sintetizza lo scopo e il senso dell’antologia, evidentemente ispirata dall’ombra tirannica che in quell’eremo si aggirava: «Questo volume non è solo l’ostinato e ossessivo tentativo di inseguire il fantasma, ma il desiderio di fornire uno strumento per indagare l’opera d’arte Carmelo Bene . Queste pagine narrano, come un documentario, il viaggio sognante di un artista assoluto restituendone la voce, il dire poetico, gli amori, le lotte e le idiosincrasie. Mostrano il rigore ferreo di un percorso, senza inizio e senza fine, perseguito senza compromessi, i cui esiti sono già contenuti nelle deflagranti premesse».

«Si può solo dire nulla» ospita soprattutto interviste. E ben sette sono mie. Ma debbo subito precisare che quelle fra me e Carmelo Bene non furono interviste vere e proprie. Lo disse, del resto, lui stesso, quando, allorché gli chiesi all’inizio di uno dei colloqui in questione: «Ma non avevi dichiarato che non avresti più rilasciato interviste?», mi rispose d’acchito, serafico e mefistofelico: «Il fatto è che quelle fra me e te non sono interviste: ognuno parla per conto suo».

In effetti, si trattava piuttosto di duelli. Come, d’altronde, era stato il mio primo incontro di persona con Eduardo De Filippo, che proprio in quanto tale costituì, ciò che doveva poi verificarsi anche con Carmelo, l’avvio di un rapporto straordinario. E dunque mi sembra utile proporre, in due puntate, una sintesi di quel che Bene mi disse, soprattutto a proposito di Napoli, nel corso delle «interviste» ora ripubblicate. La divido in capitoletti, ciascuno con un proprio titolo.

Autodefinizione

«Sono una macchina antilinguaggio. E un aristocratico, a patto, però, che per aristocrazia non s’intenda lo stare in compagnia di se stessi. Questo - lo stare da soli con se stessi - già sarebbe una ressa. Io, al contrario, mi adopero da sempre a uscir fuori da me, ad attestarmi nel regno dell’inconoscibile, dell’indicibile e dell’irriconoscibile. Una volta Flaiano disse di me: “È un Bene cattivo”. Ma io non sono né buono né cattivo. Sono, rifacendomi a Cioran, un Demiurgo perverso».

Istruzioni per l’uso

«Starò a Napoli per quattro giorni molto impegnativi: e, perciò, ritengo indispensabile fornire alcune istruzioni per l’uso (e l’abuso) che i napoletani faranno di me. Me ne sento autorizzato perché anch’io sono un turco del Sud, e non a caso Eduardo De Filippo, insieme con il quale ho dato vari recital, mi ripeteva sempre che dovevo dire quel Di Giacomo che, ormai, i napoletani non sanno più dire. Allora, cominciamo da “Hamlet suite”: che, ovviamente, non è né uno spettacolo, né una rappresentazione, ma uno dei miei soliti concerti/sconcerti, in cui ancora una volta metto in scena l’iconoclastia, nel senso del rifiuto dell’immagine e della parola. Anche in “Hamlet suite”, insomma, io, come gli gnostici, maltratto il corpo in favore dello spirito e, alla fine, lo cancello. È per questo che, nel mio recital basato sui “Canti Orfici” di Dino Campana, mi sono presentato sul palcoscenico dell’Augusteo con la faccia quasi completamente ricoperta da cerotti. Dopo aver stuprato il testo e il senso, intendo sfregiare e azzerare persino la mia immagine. In altri termini, continuo a tendere verso l’inaudito. E poiché il teatro di oggi, che è il teatro dei servi, continua a subire la tirannia del testo e a re-citare (cioè a citare la “cosa”, a inserire puntualmente quant’è scritto), io, sapendo che il teatro, al contrario, può esistere solo in quanto è incomprensibile, in quanto è il nostro buio, elimino Shakespeare. Per quanto riguarda poi la presentazione della mia Opera Omnia appena pubblicata nei “Classici” Bompiani, sappia chi vorrà assistervi che non potrà aspettarsi un colloquio con me. Perché io, tra i classici, mi ci trovo (e ci sto benissimo) in quanto mi sento davvero morto, e non da oggi. Infine, mi dicono che dovrò passeggiare con la signora Bassolino a San Gregorio Armeno. Mi fa davvero piacere, perché quella è la strada dei presepi a me molto cari, e quindi degli inni alla nascita di Cristo (poverino, chi lo avrebbe detto che ne avrebbero fatto un cattolico...). Però avverto che non potrò fare più di cinquanta metri. Non solo perché sono raffreddato, ma anche e soprattutto perché ho eletto come mia guida nella patria celeste San Giuseppe da Copertino. E San Giuseppe da Copertino era un santo che volava, anche se non sapeva di volare. Non era un santo terreno, e dunque non potrebbe resistere a lungo se dovesse passeggiare con i piedi per terra e, per giunta, in una strada affollata dai pastori del presepe che, come tutti sappiamo, sono fatti di terracotta».

«Pinocchio»

«”Pinocchio” è dedicato ai bambini napoletani. Dunque, che gli abbonati del San Carlo portino (o, meglio ancora, mandino) in teatro i loro bambini: per gli adulti, questo spettacolo è roba veramente difficile, veramente difficile. È uno spettacolo troppo pervertito e troppo anticivile per le persone cresciute. Ripeto il mio invito: che gli abbonati del San Carlo cedano il posto agli addetti ai lavori, cioè appunto ai bambini, i quali sono preparatissimi, sono gli unici che possono capire questo spettacolo. Perché, ripeto, è uno spettacolo pervertito: infatti, l’adulto può essere più o meno buono, più o meno simpatico, più o meno politico, più o meno cittadino, mentre il bambino non è niente di tutto questo, è e sarà sempre prima e del più e del meno. Dal momento che anche il bambino, come me, è perverso, nel senso che è de-genere: di modo che, come il bambino non rientra in alcuna delle categorie in cui vorrebbero imbalsamarlo gli adulti, così questo spettacolo - che, insisto, al bambino è dedicato - non rientra in alcun genere di rappresentazione».

Napoli

«Vive, come Pinocchio, unicamente di un “work in regress”, senza alcuna concessione a una qualsiasi crescita o integrazione in una qualsiasi forma di governabilità. Ed è proprio questo suo non voler crescere, questo rifiuto che non va mai sottovalutato. Una miseria che si scopre come lusso non è irreggimentabile. In ogni caso, mi sembra una città che si autocalpesta. È fottuta, assolutamente fottuta, ma persiste nell’ostinazione di starsene chiusa in una specie di casbah della disfunzione e della scorrettezza. La mia non è una nostalgia del cosiddetto “civile”. Ma passare in auto contromano, salire sul marciapiede... nei taxi, i conducenti ti occupano anche il posto di dietro, seggono come se fossero in Formula 1: e quando gli ho chiesto di spostare più avanti il suo sedile, “devo stare comodo io”, mi ha risposto uno l’altra sera. Ma voglio aggiungere subito una precisazione. Non è che le altre parti d’Italia siano una non-Napoli: penso, piuttosto, che Napoli sia il fuoco di una lente costituita dall’Italia intera. Il fuoco di quella lente sta a Napoli, dove la situazione è proprio inequivocabile, dove qualunque governo dovrebbe capire e confessare: non c’è niente da fare, stiamo qui a rubare i vostri soldi, stiamo qui a occupare delle poltrone invano; e non c’è niente da fare in quanto l’elettorato siete voi, e proprio per questo siete responsabili».