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 2022  ottobre 05 Mercoledì calendario

Il volo di D’Annunzio

C’era musica quella sera del 13 agosto 1922 a Villa Cargnacco, futuro Vittoriale. Secondo un testimone oculare che, allora bambino, racconterà a distanza di tempo quanto sentito e visto di persona, si udiva un vociare allegro, un chiacchiericcio insistente intervallato da qualche risata. Luisa Bàccara suonava il piano e sua sorella minore, Jolanda, il violoncello. D’Annunzio sembra fosse seduto a cavalcioni sul davanzale della finestra con aria spensierata a prendere il fresco. All’improvviso però un tonfo sordo ruppe l’incanto: il poeta era disteso sul selciato sottostante dopo un volo di circa quattro metri, un “Volo d’Arcangelo”, si disse, ma sempre volo fu, o meglio una brutta caduta non senza conseguenze. Questo quanto racconta un volume curato da Pietro Gibellini – Gabriele d’Annunzio, L’Arcangelo caduto. Il misterioso infortunio del 1922 nelle parole dello scrittore – che l’editore Ianieri, benemerito nel campo degli studi dannunziani, ha rimesso in circolazione (un testo già apparso nel 1995 da Giunti e riproposto nel centenario). L’accaduto appare subito preoccupante, stando al referto stilato dal medico personale del poeta, il dott. Antonio Duse (niente a che fare con la grande attrice): «segni manifesti di frattura», «commozione cerebrale», «stato sub-cosciente», «prognosi riservata». Naturalmente, nonostante i tentativi di tener segreta la cosa, trattandosi di d’Annunzio, la stampa diffonde la notizia e la commenta avanzando più di un’ipotesi, compresa quella di una caduta non accidentale.
Fatto sta che il clima politico dell’estate del ’22 non era dei più quieti per via di uno sciopero annunciato dai socialisti per il 1° agosto e la conseguente, violenta risposta dei fascisti che si opponevano all’iniziativa. Il clima di tensione cresceva e qualcuno ipotizzava addirittura un colpo di Stato, poi smentito dal “Corriere della sera”, con un direttivo composto da d’Annunzio, Mussolini e Nitti.
D’Annunzio però invocava a proposito la solidarietà nazionale, come appare nel discorso milanese tenuto da Palazzo Marino, da cui grida «Viva l’Italia», deludendo la platea fascista che si aspettava un’esplicita adesione all’ideologia mussoliniana. Per discutere della questione si stabiliva comunque di fissare un incontro in una villa toscana per il 15 agosto in cui D’Annunzio avrebbe dovuto recitare la parte del paciere tra Mussolini e Nitti. La caduta dalla finestra però interrompeva il progetto e il decorso politico da quel momento in poi sarebbe andato avanti senza intoppi, com’è noto. La marcia su Roma (27-31 ottobre) era ormai alle porte.
Chi avrebbe dunque avuto interesse di impedire l’incontro a tre mettendo in atto un vero e proprio “attentato” a d’Annunzio; e poi, chi lo avrebbe materialmente spinto dal davanzale su cui era seduto provocandone la caduta? La faccenda ha del mistero. Nell’introduzione al volume (paragrafo “I torbidi risvolti della politica”) Gibellini esamina una serie di ipotesi non trascurando la letteratura biografica sul tema, ma riprende anche un’altra strada, altrettanto possibile, che sfata quella della congiura. Il discorso viene spostato su un piano per così dire “femminile”, più banale volendo, ma non meno efficace. Sembra infatti che il poeta fosse particolarmente attratto dalla giovinezza di Jolanda e avesse avanzato insistentemente le sue proposte alla giovane che le rifiutava. Sarà stato che il padrone di casa si fosse spinto un po’ troppo con le sue attenzioni verso Jolanda
a tal punto da provocare la reazione della Bàccara e dunque la spinta, volontaria o meno, che causò il defenestramento dell’Arcangelo? Forse, ma certo è che l’episodio, che avrebbe potuto finire in tragedia, può leggersi anche come un incidente provocato dall’esuberanza sessuale del Vate e dalla gelosia della Bàccara. In ogni caso, quanto accaduto, al di là delle interpretazioni, produce letteratura, come prova il Diario inedito (17- 27 agosto 1922) che il libro curato da Gibellini riproduce integralmente. Un testo che riporta alla lettera quanto viene pronunciato nel delirio dall’infermo durante la degenza. I medici al suo capezzale trascrivono con devozione di discepoli e di ammiratori tutte le sue parole ora sconnesse, poi sempre più precise e consapevoli. Per d’Annunzio è l’occasione per un nuovo libro, tanto che passato il pericolo, vuole rimetterci mano trasformandolo da testo “parlato” in testo scritto. Nulla va perduto per la storia, neppure i sospiri e le mezze frasi pronunciate. D’altro canto, è quello il momento per riprendere gli scritti inerenti a quella circostanza storica, come il Comento meditato a un discorso improvviso, tenuto a Milano, e poi la serie delle rielaborazioni, da Per l’Italia degli Italiani al Libro ascetico della giovane Italia
(ampi brani sono riprodotti nel libro). Torna insomma la prosa gonfia e innaturale, il linguaggio sacro mescolato a quello politico, una “febbre mistica” che contamina l’amor di patria. Un più controllato riflesso del “volo” si ha invece nel racconto che lo stesso d’Annunzio ripropone nel Libro segreto per bocca di Angelo Cocles, ove il tentativo di un’autobiografia incompiuta poggia invece su una prosa modernissima, non strutturata in un tessuto narrativo compatto. I frammenti montati con perizia, accelerano il processo di dissoluzione prosastica giungendo al grado estremo (adozione della brevitas o respiro breve del periodo, assenza di maiuscole) e confermando la vocazione diaristica della sua scrittura.
L’episodio del volo, inoltre, non considerato solo di per sé, apre anche altri interessanti e importanti spiragli, non ultimo l’ampia questione dei discussi rapporti di d’Annunzio con il fascismo, la sua «prigionia dorata» al Vittoriale sotto lo sguardo di «occhiuti carcerieri» voluti dal Duce per un controllo-censura totale sul personaggio. Ma questa è un’altra storia.