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 2022  settembre 23 Venerdì calendario

Su "Melancolia" di Mircea Cartarescu (La nave di Teseo)

Fra le tante possibili categorie in cui gli scrittori, soprattutto i maggiori, potrebbero essere suddivisi, mi ha sempre colpito quella degli imitabili. Di solito si tratta di scrittori (o scrittrici) con un’impronta stilistica molto forte, con un passo così pronunciato da produrre un’eco indelebile in chi legge. I pensieri del lettore si avvitano intorno a un nucleo ritmico, a un giro di frase, tipico dell’autore. Si cominciano a formulare i pensieri alla maniera dell’autore: il suo stile - cioè quella maniera specifica in cui un modo di stare al mondo coincide con il modo di dirlo - si sovrappone al nostro. Principe assoluto degli imitabili è Thomas Bernhard, il cui periodare ossessivo è un lanciafiamme su un mondo di gretti. Leggi Bernhard e trasformerai in Salisburgo il posto in cui vivi. Naturalmente gli imitabili spezzano le schiene e le penne di generazioni di scrittori, che si condannano a un epigonismo senza speranza. Tra gli imitabili contemporanei, Emmanuel Carrère, Annie Ernaux e Roberto Bolaño meritano il posto d’onore. Su quel trono si siedono, condannandosi a sparire, anche scrittori dotati.

Poi ci sono gli scrittori inimitabili. E sono quelli il cui connubio di mondo e parole genera un tale unico organismo, un tale universo indicibile altrimenti, che anche lo scrittore più a corto di originalità dismette ogni istinto mimetico. Gli inimitabili sono pochissimi. Mircea Cartarescu, lo scrittore romeno autore di un’opera monumentale che comprende tra gli altri i tre volumi di Abbacinante e l’inarginabile Solenoide (tutti usciti in Italia nella traduzione sapiente e partecipe di Bruno Mazzoni) è per quanto mi riguarda l’inimitabile per eccellenza della letteratura contemporanea. Per scrivere come Cartarescu non basta avere cose da dire e sapere come farlo. Bisogna essere Cartarescu.

Melancolia, il suo nuovo libro (tradotto sempre da Mazzoni e in uscita il 27 settembre per La nave di Teseo) è il concentrato di cosa significhi quanto ho appena scritto. Tre racconti di media lunghezza incorniciati da un testo di apertura e da un epilogo. Le pelli, il terzo dei tre, comincia così: "A volte, soprattutto di sera, quando lo coglieva la melancolia, apriva il vecchio armadio per vedere le sue pelli". In Ponti si trova questo passaggio: "La notte, con la luna e le sue stelle, col suo profumo freddo e caldo allo stesso tempo, tiepido con ciocche di fresco, riempiva ogni stanza, creava mulinelli dappertutto, si appiccicava allo specchio e ai mobili lustri, fluiva nei lavandini e nella tazza del cesso, s’infilava nei due buchi delle prese elettriche".

Melancolia non è un libro di racconti, perché è impossibile stringere Cartarescu in un genere. "Non lo chiamerei un romanzo" mi dice, "ma solo un libro. Non scrivo romanzi o racconti o saggi, ma libri miei, ciascuno è la parte di un’opera che vado scrivendo da cinquant’anni. Quell’opera è la specifica visione che ho del mondo e di me".

Ma qual è la visione di Cartarescu? È quella di un universo in cui l’infinitesimo della cellula, una città, la galassia, stanno dentro lo stesso giro di frase, in cui la poesia, le neuroscienze, l’astronomia, combinate producono una visione esplosiva. In cui un bambino può restare in casa da solo per anni, e poi uscire incamminandosi su un arco immateriale che scavalca, oltre le nuvole, Bucarest. In cui un padre, assente e non invocato, è un’immensa, pachidermica creatura di caucciù dentro una fabbrica.

Melancolia arriva a trent’anni di distanza da Nostalgia, che per primo rivelò la voce di Cartarescu. "Quella era la tela di un ragno iniettata di Lsd" commenta lui oggi "e c’era dentro, quando avevo trent’anni, tutta la volontà di dimostrare la potenza della mia scrittura. Melancolia contiene, viceversa, tutto quello che in trent’anni ho imparato sulla prosa. L’imperfezione di Nostalgia, per la quale ho provato sempre una sorta di insoddisfazione, è anche ciò che lo rende memorabile". Stessa struttura, personaggi in dialogo tra loro. "Melancolia è una risposta a Nostalgia a distanza di tempo, potrei chiamarlo un Nostalgia revisited".

Si entra come Alice dentro uno specchio nella prima pagina, si passa per le pelli umane con cui ciascuno cataloga tutti i se stessi che è stato, e si resta imprigionati dentro un corpo alla fine del libro. Il resto è, come in Abbacinante e Solenoide, la descrizione visionaria e lisergica di una città - Bucarest - che è tutte le città del mondo. "Ma Bucarest esiste solo nei miei libri, l’ho inventata. Altrimenti è una città prosaica, e irreale, come Londra, Pyongyang o Milano. Le città diventano reali solo quando gli scrittori le inventano: Dostoevskij inventa San Pietroburgo, Borges Buenos Aires, Durell Alessandria, Joyce inventa Dublino".

In questo libro così silenzioso, che l’autore descrive come un quartetto d’archi in confronto alle sinfonie dei suoi progetti letterari più voluminosi, Cartarescu fa una sorta di grande monumento della solitudine ("che poi è il sentimento a cui sono stato condannato per tutta vita"). La melancolia di cui ci parla è una condizione di solitudine atomica, a cui non si chiede nemmeno la consolazione di un istinto nostalgico. Perché la melancolia è irriducibile, è la condizione umana. "Accucciato davanti alla radio, a terra, riflesso nel legno lucido delle ante del mobiletto, il ragazzo sembrava inchinarsi davanti all’idolo, ipnotico e crudele, della melancolia".

Ma nemmeno la condizione umana, sembra dirci Cartarescu, offre il conforto della condivisione. Non c’è scampo, perché non c’è un essere umano che sia uguale a un altro. Venire al mondo è condannarsi a questa evidenza, a questa unicità, che ci fa dannatamente soli e divini, ma ciascuno è un dio a cui nessuno può credere. "Il bambino avvertì all’improvviso, assoluta, la ripugnanza e la melancolia della vita, e desiderò non essere mai stato concepito". Per questo non c’è imitazione possibile, per questo essere inimitabili è il trionfo e la condanna di ciascun essere umano. Per questo lo stile di Cartarescu resta lì, nel firmamento letterario attuale, come una stella distante, bellissima e sperduta, che si può soltanto guardare, sentendone la bellezza e l’abisso.