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 2022  settembre 24 Sabato calendario

Biografia di Giuliano Giuliani raccontata da lui stesso

Dalla sua cava di marmo, dove lavora e vive, sono nate vecchie storie che lo riguardano e che racconta, quasi chiedendo il permesso a chi le ascolta. A volte sussurra e torce le mani grandi che accompagnano con maestriail suo lavoro di scultore. Due sue mostre apriranno a Roma nel mese di ottobre (il 6 al Parco archeologico del Colosseo e il 14 alla galleria Nuova Pesa di Simona Marchini). Era da tempo che volevo incontrare Giuliano Giuliani che ha fatto dell’aria l’elemento più prossimo alle forme che scolpisce. Sembrano figure dotate di ali che quasi per caso sostano sulla terra pronte a riprendere il volo. Apprezzo il lavoro di questo artista, la sua timidezza, il suo essere permanentemente spiazzato. Giro per la casa, uno spazio semplice arredato con libri alle pareti insieme a quadri e foto di famiglia. Vedo su un tavolo un libro di poesie della Cvetaeva. Apro a caso: “Passano gli anni, ed ecco la pietra da noi segnata, tolta sostituita da una liscia…”. Penso che la materia per non soccombere si adatta alla trasformazione. Resiste senza opporsi. Ma bisogna conoscerla per non stravolgerla.
Assecondarla senza violenza per carpirne i segreti. Giuliani fa i conti con le proprie ferite. I colpi di bulino o di scalpello, oltre che tecnica, sono ricordo di antichi dolori, di ciò che è stato, degli equilibri scomposti e ripresi in tempo per non soccombere: «Quello che più di ogni cosa mi ha perseguitato da giovane era la disistima che avevo di me. Nessuna certezza che non fosse lamediocrità del vivere, la convinzione che non avrei mai potuto fare bene ciò per cui mi sentivo portato», dice .
Con il tempo hai reso la precarietà un punto di forza.
«Ricordo com’ero, ogni colpo di scalpello porta con sé memoria e desiderio».
Che ricordo hai di te?
«Se intendi la mia infanzia, opacamente dolorosa.
Sono nato nella frazione sotto Colle San Marco, a pochi chilometri da Ascoli. La parte felice l’ho trascorsa qui, nella cava di marmo, in questa casa che mio padre, scalpellino, ha costruito pietra su pietra. Il travertino è stata la mia sola pietra».
Perché?
«È giovane e duttile. Non potrei lavorare con i graniti o con i marmi che arrivarono dalle profondità marine, vecchi di sessanta milioni di anni. Il travertino ha solo cinque o sei milioni di anni, è la sua “giovane età” a renderlo tenue».
Tuo padre ti ha insegnato a lavorarlo?
«La storia è più complicata di un semplice passaggio di consegne. Lui nasceva povero, poi i suoi nonni che erano emigrati in America comprarono questo pezzo di montagna. A 10 anni fu tolto dalla scuola. A 14 divenne scalpellino. Cominciò a tagliare e a lavorare il marmo. Era bravo e dopo la guerra si mise in proprio.
Rilevò questa terra e fece fruttare la cava. Venivo qui da piccolo, soprattutto l’estate. Mi muovevo con curiosità e gioia in mezzo agli operai. Portavo loro acqua e vino. Sentivo le risate e le bestemmie di questi giganti che tutto il giorno spaccavano pietre con una mazza di sette chili».
Quando hai capito che era il tuo mondo?
«Penso che certe cose si capiscano non quando si fanno ma quando ti chiedi perché le stai facendo. Ero già oltre l’adolescenza quando avvertii un’inquietudine spirituale e un senso profondo di nostalgia».
Nostalgia per cosa?
«Per tutto quello che mi sembrava di aver perso, a cominciare dall’infanzia e poi la scuola, gli amici, i gesti elementari di coloro che per anni mi avevano accompagnato. Era un’inquietudine ancora goffa e malinconica che contrastai leggendo Cesare Pavese.
Mi sembrava di essere lui, altrettanto goffo e malinconico. Con quel suicidio in un alberghetto torinese. La cosa mi colpì. Dicevo, come fa uno che ha raccontato il proprio mondo, per sé e per gli altri, a finire in quel modo traumatico? A privarsi del bene più prezioso, cioè la vita? Pensai che fosse l’arte il motivo di tutto questo. Le delusioni che può ingenerare. Ma poi ho capito che non poteva essere così. Legarmi all’arte è stato per me legarmi a una necessità di verità, anche se tutta da scoprire».
L’hai scoperta?
«All’inizio ebbi curiosità per la musica. Ma studiarla mi annoiava, richiedeva una disciplina alla quale non ero abituato. Il mio incubo fu il solfeggio. Ed è stato difficile arrivare alla pietra. Quando finalmente sono giunto al travertino ho scoperto che lì dentro c’era tutta la mia storia».
Come definiresti la tua scultura?
«Lo scavo interiore che mi ha consentito, attraverso la materia, di intuire la mia forma originaria. La scultura è prima di tutto un’esperienza fisica. Tutto passa attraverso il corpo, è la sola via per raggiungere quella spiritualità che ti dicevo».
Il richiamo al corpo da solo non basta.
«Per capire che non bastava ho dovuto passare varie fasi. Anche attraverso i miei studi irregolari. O meglio dubbiosi».
Scelte sbagliate?
«In provincia è più complicato. Lasciai l’istituto per geometri per quello d’arte. Poi iscrizione al Dams che mollai per l’Accademia. Un professore di storia dell’arte, ricordo, mi guardò inorridito quando tentai di convincerlo della superiorità dei Macchiaioli sugli Impressionisti. Gli dissi che la provincia li aveva fregati, e che la Maremma purtroppo non era celebre come Parigi. Scoppiò a ridere. Commiserava le mie convinzioni».
Che rapporto hai con la provincia?
«Sono orgoglioso di aver vissuto tutta la vita in questo buco di due ettari. Allora, come oggi, mi piaceva camminare nella cava, ammirare le pareti bianche di marmo da cui affioravano le tracce di fossili, resti emozionanti di un passato remoto. Perciò mi fanno un po’ ridere quegli artisti che nel curriculum informano di vivere tra New York e Berlino o Shanghai».
Quando hai iniziato il tuo percorso?
«Per una decina di anni ho fatto il commerciante.
Mettemmo su, con un fratello e dei cugini, un’attività di filati. Fu dopo la fine dell’Accademia. Era come se il mio motore mentale si fosse improvvisamente ingrippato. Mi dicevo, tanto hai tempo per l’arte. E invece la vedevo allontanarsi, come schifata dalle mie scelte. Per nove lunghissimi anni ho venduto prodotti di magazzino. Mi alzavo la mattina senza sapere perché. E ho cominciato ad avere problemi di panico e di stabilità emotiva. L’azienda era cresciuta.
Avevamo circa 40 dipendenti. A quel punto ho mollato».
Per andare verso dove?
«Ho preso a insegnare prima a Urbino e poi aMacerata. Sono passati altri dieci anni. Negli ultimi sette scelsi il part time: tre giorni a scuola e tre in studio a scolpire. Nel frattempo ero passato dal figurativo all’astratto. Ineffabili e stravolti vedevo i legami tra la realtà e la rappresentazione. Crollava in me la fedeltà al reale. Non era più importante».
Cosa lo era?
«Le forme leggere e precarie che vedevo sposarsi con l’eternità della pietra. La fragilità ci insegue, la nostra povertà morale ci condanna e se non ci fosse il bisogno di lanciare lo sguardo oltre la materia, se non ci fosse lo spirituale, sentirei di aver fallito».
Per il tuo lavoro, e direi perfino per la tua committenza, hai spesso fatto riferimento alla parola “sacro”. Puoi spiegarne l’uso?
«Il poeta e amico Eugenio De Signoribus dice che senza la poesia lui non sarebbe niente, al massimo una moltiplicazione del vuoto. Per me è così con il sacro. Una nozione che lego all’amore per le cose, per gli ambienti, per le persone».
Non rischi di annacquare un po’ troppo questa esperienza?
«Non so se la mia concezione banalizzi il sacro. So che non ne posso fare a meno e me ne rendo conto ogni
volta che penso alla bellezza non solo come espressione estetica».
Vuoi dire che dietro al gesto di un artista c’è una specie di mandato divino?
«Chiamo Dio ciò che altri chiamano ispirazione, dono, talento, verità. Dove finisce l’arte lì comincia Dio.
Anche se all’arte manca la Resurrezione, essa resta vivida come un sogno ad occhi aperti».
Esiste un’arte che dissacra e trasgredisce.
«Anche la dissacrazione deve fare i conti con il sacro.
Non può prescinderne. Oltretutto, il gesto di distruggere sottintende o anticipa quello di edificare. Non vorrei però darti l’impressione che io sia attratto dall’arte sacra, come genere ormai decaduto. Non potrei mai rappresentarmi il Dio nascosto, o la solitudine di Gesù nell’orto del Getsemani come fossero figure naturali, direttamente percepibili.
Quell’arte figurativa, un po’ bigotta e datata, non ha più motivo di esistere. E nessuno può essere fuori dal proprio tempo. Il mio tempo parla di luce e ombre sugli spazi che le forme occupano. Parla di ferite mai rimarginate e di speranze mai negate del tutto. Parla del mio cuore e della mia fede che contrasta le tendenze sociali distruttive, l’egoismo e il narcisismoimperanti. Parla della mia infanzia da cui quasi tutto di me proviene».
L’infanzia a cui alludi, so, è stata fortemente segnata dal rapporto paterno.
«Non c’è dubbio che quel rapporto sia stato imprescindibile. Dei cinque tra fratelli e sorelle che eravamo sono quello che si è sentito chiamato a una sfida segreta con mio padre».
Segreta perché?
«Fino a tutta l’adolescenza non riuscivo a parlargli, tanto era il timore che provavo al suo cospetto. Era un uomo severissimo. A volte mi puniva costringendomi a stare in ginocchio. E quando si allontanava io restavo in quella posizione e mia madre, con il suo grande amore per i figli, diceva ridendo: alzati, non essere ridicolo, papà non c’è. E io restavo lì nella convinzione che quel comando ingiuntomi fosse anche il mio modo di sfidarlo. Ho vissuto nei suoi riguardi il contrasto tra il detestarlo e ammirarlo per tutto quanto aveva fatto».
E amarlo?
«L’ho amato quando ho capito che in lui c’era una vena poetica che non era riuscito a realizzare. E ho sentito che, malgrado le sue imperiose durezze, gli somigliavo. Ero la sua parte nascosta, non dico migliore ma diversa. Alla fine della vita aveva smesso di occuparsi della cava. E io gli dissi, ora me ne occupo alla mia maniera, seguendo il mio istinto. Era a letto e per la prima volta vidi dall’angolo di un occhioscendere una lacrima. Sembrava un cristallo, tanto mi sembrò perfetta. E quest’uomo che per tutta la vita mi aveva visto come un oggetto da plasmare, provò un senso di sollievo nell’aver udito quelle parole. Sapevo che non aveva mai avuto paura di niente e che la povertà e il bisogno di riscatto lo avevano reso simile al martello dei suoi operai. Morì a 91 anni, lo stesso giorno in cui morì papa Wojtyla».
Come hai preso la sua scomparsa?
«In modo drammatico. All’improvviso non avevo più davanti la persona a cui dimostrare che ce l’avrei fatta».
E ce l’hai fatta?
«Non spetta a me doverlo dire. Però una cosa vorrei aggiungere: la cava che vedi, dal prossimo anno diventerà un grande laboratorio artistico sulle sculture in travertino. Il progetto realizzativo mi è stato donato da Mario Botta e qui verranno a imparare ragazzi da tutto il mondo. Ho pensato a mio padre che vi ha passato larga parte della sua vita. E mi piacerebbe che da qualche parte del cielo si mostrasse orgoglioso».