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 2022  settembre 24 Sabato calendario

Intervista ad Antonio Manzini - su "La mala erba" (Sellerio)

L’ombelico d’Italia. Il viaggio di Antonio Manzini attraverso le terre inesplorate del racconto stavolta lo porta non troppo lontano dalla campagna laziale dove vive con la moglie Toni e i suoi cani. Provincia di Rieti, centro geografico del Belpaese («il monumento simbolo è una caciotta, enorme e sgraziata, mi dica lei se trasmette un senso di energia morale...»), per la precisione la località immaginaria di Colle San Martino sulle pendici dell’Appennino, un ventre selvaggio e arcaico, dove si annidano violenza e furbizia ancestrali, desiderio di potere cieco e servitù intellettuale. Homo homini lupus è la legge che vige nel cuore d’Italia, non a caso La mala erba si conclude con l’immagine ferale di tre lupi che si aggirano per i boschi.

Manzini, lei non usa mai le parole a caso e dunque iniziamo dall’eco verghiana del titolo, “La mala erba”. Che cos’è?
«È il peggio di noi: la mala erba infesta ogni cosa, il suo unico intento è sopravvivere a ogni costo, non vivere, non creare qualcosa di bello. Simboleggia una società quasi tribale, di disperati».

E da dove viene il nome del paese immaginario di Colle San Martino?
«Anche questo non è casuale, ho pensato a San Martino, quello del mantello, ha presente? Lui era un esempio di solidarietà perché regalava il suo mantello al povero e Dio allora concedeva una tregua al freddo di novembre. Nel libro invece quel mantello diventa simbolo di ipocrisia, un modo di nascondere i sentimenti. Tutti i personaggi vivono nella menzogna, a partire dal prete che ha una compagna e un figlio»

Da quando è diventato così pessimista? Schiavone non è un allegrone, ma alla fine i casi li risolve sempre…
«Intanto invecchiando non si migliora. Da giovane ero più ottimista perché ero concentrato su me stesso, la mia evoluzione, il mio successo. Ora invece penso ai figli, ai nipoti, alla società che gli stiamo lasciando e mi dispero: ci giochiamo l’energia di tutta una generazione».

Lei è padre “acquisito” di due ragazzi figli del primo matrimonio di sua moglie, vero?
«Si, sono il padre “di riserva”, anche se mi sento di dire che li amo come fossero miei, sono entrati nella mia vita da piccoli e ora sono adulti; così come mio nipote e come tanti loro coetanei faticano a trovare la loro strada. Non si smette mai di preoccuparsi per loro».

Qual è la preoccupazione più grande?
«Alla loro età io ero un adulto, pieno di possibilità - erano gli Anni 90, sono uscito dall’Accademia e ho subito iniziato con le tournée nei teatri stabili. Loro sono costretti a rimanere adolescenti, dipendenti da noi adulti, fino a 40. La giovinezza si è dilatata in modo innaturale e allo stesso tempo le possibilità si sono ristrette: è saltato l’ascensore sociale, il figlio del notaio fa il notaio, solo che il figlio del tornitore non riesce più a fare il tornitore».

Tanti se ne vanno, come sogna Samantha.
«E le sembra un bel Paese quello in cui i figli se ne devono andare per trovare un futuro? Ci credo che i ragazzi non vanno a votare, li abbiamo delusi profondamente, hanno il diritto di vivere a casa loro. Samantha comunque non se ne va, si piega alla legge del più forte. E non se ne va nemmeno il suo ex fidanzatino, anche se è l’unico che ha davvero la possibilità e lei a un certo punto lo prega quasi: “scappa, scappa”».
Il libro è ambientato nel 2009 ma sembra sospeso nel tempo, anche la tecnologia ha un ruolo marginale.
«Ho voluto rappresentare una condizione esistenziale. Quello di Colle San Martino è un mondo ancestrale ed eterno che vive dentro di noi, reale oggi come nel Medioevo. Ho messo una data perché volevo fosse ben chiaro che non possiamo liquidare certi problemi come se appartenessero al passato, sono tuttora attualissimi. Anzi, mai come ora c’è una parte del Paese terribilmente cieca e arcaica. Quando sento dire che la Meloni è il nuovo mi infurio: chi vota questa destra è l’Italia ancestrale».

Siamo davvero diventati un paese così feroce?
«Sì, non c’è più spazio per la cultura né per i sentimenti, proprio come a Colle San Martino. Non a caso scrivo “I fatti e le persone narrati in questo libro sono frutto della fantasia. Fino a un certo punto”. Lo vede cosa dovete inventarvi voi giornalisti per vendere qualche copia? Funziona solo il gossip. Il resto, così come i libri o il cinema, ormai parla solo a una ristretta minorqanza. Gli intellettuali non sanno più raccontare il nostro tempo, solo Chiara Ferragni ne è capace».

Eppure lei ha molto successo con Schiavone. Le pesa?
«Chi dice che il successo non conta è un bugiardo. Mi è stato fatto un enorme regalo: adesso le persone mi ascoltano. Ma è anche una grande responsabilità. Per questo ho deciso di andare oltre, denunciare la situazione in cui viviamo» .

La cosa peggiore dell’Italia qual è?
«Che ci siamo dimenticati di essere cittadini, di essere parte di una collettività. Non c’è nessuno che faccia battaglie per i più deboli, basta pensare allo smantellamento criminale della sanità pubblica. Anche la sinistra li ha abbandonati. Se penso all’orgoglio degli operai di Gela in tuta contro la mafia mi viene una nostalgia... Siamo sempre più simili a una società feudale, una piramide in cui tutti hanno un nemico subito sotto di lui, non a caso la destra si conquista i ceti più poveri incitandoli a prendersela con i migranti, il vecchio sistema del capro espiatorio ».
Nel libro il feudatario è il perfido Cicci Bellè.

«Lui è perfido, è vero, ha solo un lato debole che è l’amore per il figlio Robertino diversamente abile. Cicci Bellè tiene sotto ricatto tutto il paese, ma gli altri non sono molto meglio, tutti disposti a vendersi per un piatto di lenticchie»

Anche l’Italia ormai è un paese sotto ricatto, dipendiamo dal gas di Putin…
«Certo, perché non siamo mai stati capaci di fare scelte scomode in autonomia, altri Paesi hanno fatto le loro scelte e sono stati disposti a pagarle, noi abbiamo bisogno dell’America che ci venga a dire che Putin ci ricatta, siamo sempre servi, eterodiretti».

Samantha alla fine rifiuta il genere maschile. Non è una sconfitta per tutti, la mancanza di comunicazione tra sessi? 
«Samantha non ha tutti i torti, il mondo degli uomini l’ha profondamente delusa... scopre un amore nella sua amica ma non lo può vivere alla luce del sole, e così torniamo al mantello dell’ipocrisia».

Se fossimo in un libro giallo, chi sarebbe la vittima qui e chi il colpevole?
«Un libro è sempre un’indagine, non necessariamente su un omicidio, ma su un amore, un’identità, un passato. Ogni storia è una scusa per capire qualcosa della vita, per viaggiare in terre inesplorate. Qui gli abitanti di Colle San Martino condividono tutti una colpevolezza di fondo: pensare solo alla sopravvivenza, aver abbandonato ogni idea di solidarietà».

E lei cosa sta cercando?
«Nel mio piccolo cerco di far sopravvivere la forza delle storie. Ricordo una volta a teatro, durante una tournée, spiavo con un collega dal sipario la sala quasi vuota e lui ha detto: “Fare teatro non è fare la respirazione bocca a bocca alla cultura, ma alla macchina che tiene in vita la cultura”. Ecco io mi sento così: i miei libri sono una respirazione bocca a bocca perché il mondo che amo e in cui mi sento a casa non muoia».

A Colle San Martino domina su tutti il feudatario Cicci Bellè
Il mondo dei vinti, gli ultimi di ogni tempo, quelli cantati da Verga e Revelli e quelli che si scambiano figurine nell’era dei Pokemon. Il nuovo romanzo di Antonio Manzini ci piomba in un Medioevo prossimo venturo, una terra di sudditi rabbiosi e disperati, di colpe e fallimenti sbalzati a rilievo nella luce metallica di fine inverno. Colle San Martino, trecento abitanti e «a lavorare a stipendio fisso erano in tre». Una piazza dominata da Palazzo Bellè attorno a cui ci sono la chiesa, il bar-spaccio-tabacchi e le Acconciature maschili «by» Berardo. La Mala erba della sopravvivenza, con meno dignità dei Malavoglia e più telefonini cellulari, meno tradizioni e più reality show. Cicci Bellè è il padrone di ogni casa e terreno e tiene in pugno gli abitanti con debiti e minacce. Sue uniche debolezze sono la passione per Glenda Solinas, già regina dei pomeriggi su Italia 1, «poi immeritatamente spostata alle televendite» e l’amore per il figlio Mariuccio, trent’anni e l’età mentale di un bambino dell’asilo. L’unico a contrastarlo apertamente è il prete, Don Graziano, non grazie alla superiorità morale o spirituale ma con il potere che esercita dal pulpito e la forza del ricatto. Accanto a lui, improbabile baby sitter del nipote Faustino, la misteriosa Ljuba, russa bionda e bellissima. Dalla parte dei vinti c’è Samantha, 17 anni, liceale inquieta che sogna di fuggire lontano a fare l’università, incompresa dai genitori Enzo e Marinella, lui disoccupato e depresso, lei inacidita dalla miseria e dalle difficoltà. Quando Samantha scopre di essere incinta e il fidanzatino Roberto, arrogante e brufoloso, si ritrae nel peggiore dei modi, decide di dismettere i panni della vittima e trasformarsi in carnefice.

Con prosa lucida e impietosa e stile che nulla concede al sentimentalismo, Manzini scava nelle vite dei protagonisti che, come in una tragedia greca, corrono ciechi verso il disastro finale, in preda a «una rabbia che si perdeva nel buio dei millenni... in quell’epoca in cui non c’erano Cristo Madonna o Santi e gli uomini non erano creature di Dio. Erano figli della terra dell’acqua e del fuoco». La verità amara, chiusa nella cripta della vecchia chiesa abbandonata in cima alla collina, è che anche la solidarietà è un lusso, quando si tocca il fondo l’unica pulsione che resta agli uomini, come ai lupi, è la sopravvivenza. La mutazione antropologica del popolo profetizzata da Pasolini è completa: «Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà».