Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  settembre 23 Venerdì calendario

Intervista a Emanuele Salce

Nel 2019, per i trent’anni dalla morte di Luciano Salce, suo figlio Emanuele aveva lavorato a una mostra celebrativa con la Società Dante Alighieri. Insieme ad Andrea Pergolari scelsero foto, lettere e diari, ora conservati al Centro Sperimentale, per raccontare una storia poco nota. «Mio padre ha passato momenti terribili», racconta Emanuele. «Rimane subito orfano di madre e a sei anni il padre lo mette in collegio. Nel ’43 viene chiamato alla leva e dopo l’8 settembre i nazisti lo deportano a Moosburg; scappa ma viene tradito da collaborazionisti italiani e messo per quaranta giorni a Dachau. Gli asportarono la protesi mandibolare d’oro messa a 13 anni, dopo un incidente stradale: non so come ha fatto a sopravvivere».
Come ha ricostruito la storia?
«I miei cugini avevano in cantina uno scatolone di lettere, alcune mandate a Luigi Squarzina dalla prigionia. Lettere strazianti piene di sofferenza ma anche di forza.
Quei ventenni scrivevano come intellettuali settantenni di oggi, imparavano il francese e l’inglese leggendo Balzac e Joyce col dizionario in mano».
Parlava mai della prigionia?
«Neanche a sé stesso. Sul suo diario, sotto 1943-1945, c’è scritto solo “due anni difficili”».
Eppure suo padre interpretò spesso la macchietta del tedesco,
persino un nazista nel Federale.
«Esorcizzava. Un altoatesino mi chiese se nel Federale fosse doppiato, perché parla un tedesco migliore del suo: è proprio la sua voce, aveva imparato bene pure il tedesco. Un ex internato dello Stalag VII di Moosburg lo vide in tv e gli scrisse che lo ricordava nella loro baracca “con gli zoccoli di legno a fare i suoi spettacolini la sera, di nascosto”. In un campo di prigionia: sembra La vita è bella di Benigni».
Quando lei aveva due anni, sua madre Diletta D’Andrea lo lasciò e si mise con Gassman.
«Vittorio aveva già tre figli ma abitavano fuori, io ero l’unico in casa e non ero figlio suo. Mi detestava palesemente. Geloso di mia madre, mi vedeva come un rivale che si frapponeva all’amata.
Avevo due figure paterne ma nessun padre effettivo».
Ha visto molti set?
«Pochissimi, non mi coinvolgevano quasi mai. Una volta, a otto anni, mi portarono a Bracciano, dove mio padre stava girando Fantozzi. Era la scena del camping, dove Filini dava le martellate sulle mani di Fantozzi, e Villaggio ogni volta correva nel bosco. Avranno fatto venti ciak: pensavo che per fare l’attore bisognasse saper correre molto veloci».
E la sua vocazione d’attore?
«Tardiva. Da bambino avevo associato papà e Vittorio al loro lavoro: dev’essere il cinema che li fa indifferenti, mi dicevo, allora io non farò il cinema. Ero come il bambino che nessuno fa giocare e allora disprezza il giocattolo. Per sfida, più tardi, m’iscrissi al concorso per il Centro sperimentale. Fu difficile ma passai al corso di regia. Lo dissi a mio padre, due mesi prima che morisse, e si mise apiangere. Con lui ero sempre rancoroso, l’avrei voluto abbracciare ma non ci sono mai riuscito».
Con Gassmanandò meglio?
«C’è stato almeno il tempo per recuperare. Con le sue depressioni, gli vennerocomplessi di colpa enormi. Mi chiese scusa e diventammo molto legati, mi fece perfino recitare in un suo spettacolo. Scola mi vide e mi diede un ruolo inConcorrenza sleale.Dopo ho fatto cento lavori ma soprattutto il nullafacente. Non avevo alcuna autostima. Accettai di interpretare una pochade con una compagnia di terz’ordine pensando di ammazzarmi dopo la prima romana, una colossale figura di merda mi avrebbe legittimato al suicidio. Invece non andò così male e cominciai a fare programmi. Da due racconti autobiografici venne fuoriMumble mumble, 12 anni di repliche e 500 serate, con recensioni anche esagerate».
Quest’anno per “Diario di un inadeguato” ha avuto il Premio Flaiano.
«Se papà faceva il tedesco per elaborare il dolore, io credo di aver fatto l’attore per elaborare la mia vita passata. Risolti i traumi del mio percorso di crescita, mi sono pacificato con i miei morti».
Per il centenario di Luciano Salce, che cade il 25 settembre, cosa farà?
«Riprendo la mostra del 2019, che allora, stroncata dalla pandemia, si vide pochissimo. Sarà in versione riveduta e corretta, nel Museo di Valle Giulia, per quasi tutto ottobre. Titolo: L’ironia è una cosa seria.Faremo anche un convegno.
Luciano Salce ha fatto cinema ma anche tv, radio e scritto canzoni per Morandi e Tenco, a teatro scoprì lui il talento comico di Gassman e di Monica Vitti. Era l’ospite che tutti volevano a cena, il più ironico egradevole».
I film di suo padre che preferisce?
«I meno fortunati, Colpo di StatoeBasta guardarla».