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 2022  settembre 20 Martedì calendario

Cosa c’è da sapere sulla schiavitù

Una ventina di anni fa, Salvatore Bono – in Schiavi musulmani nell’Italia moderna. Galeotti, vu’ cumprà, domestici (Edizioni scientifiche italiane) – ha prodotto uno squarcio in una storia fino a quel momento «taciuta». Sulla base di una documentazione ineccepibile, Bono ha raccontato come l’Italia, prima di diventare uno Stato unitario, conobbe – e a lungo – la schiavitù. Come accadde in gran parte del continente europeo. Dapprincipio in Europa solo una piccola percentuale di schiavi fu di provenienza africana. La maggioranza di loro veniva dal Mediterraneo orientale, dai Balcani, dalla Russia, dai Paesi slavi e dall’Asia centrale. Una storia che potremmo definire di «schiavitù bianca». Il primo carico di schiavi neri arrivò a Lagos in Portogallo nel 1444 (mancavano quarantotto anni alla scoperta dell’America). Lisbona fu a lungo la città europea che ebbe il più alto tasso di presenza di africani. Presenza che, in età moderna, si stabilizzò su un 10 per cento di popolazione nera. In Spagna, a fine Quattrocento, ci fu qualcosa di analogo (anche se in proporzioni minori). Con l’aggiunta degli schiavi musulmani di cui si occupava specificamente il libro di Bono.
In seguito, per via del dominio spagnolo su buona parte della penisola, anche la futura Italia accolse schiavi di origine africana. Accadde in particolare tra il XVI e il XVII secolo, allorché, attraverso la mediazione degli Stati maghrebini costieri – Algeria, Tunisia, Libia che li catturavano nel centro dell’Africa e li smistavano in direzione dell’Impero ottomano e del nostro continente – la nostra penisola arrivò ad «impiegare» tra i cinquanta e i centomila schiavi. Ai neri si aggiunse un numero cospicuo di musulmani catturati nel corso delle guerre europee contro l’Impero ottomano. Napoli divenne uno dei più importanti centri schiavistici del Mediterraneo. La stessa Napoli nel 1661 arrivò a contare oltre ventimila lavoratori in cattività. Poi fu la volta di Livorno. Infine, Civitavecchia il cui porto ospitava la flotta della Chiesa romana. Da Civitavecchia – scrive Marina Caffiero nell’interessantissimo Gli schiavi del papa. Conversione e libertà dei musulmani a Roma in età moderna, edito da Morcelliana – molti africani e arabi musulmani vennero portati a Roma. Dove divenne man mano sempre più consistente «il numero degli schiavi privati, domestici, sparsi tra corte pontificia e palazzi di aristocratici, prelati, ambasciatori». Ancora all’inizio del XIX secolo, venivano «registrati» a Roma schiavi musulmani. Ben oltre i tempi dell’abolizione della schiavitù decisa nel corso della Rivoluzione francese. Da noi nei primi decenni dell’Ottocento la schiavitù era praticata ancora da «gran parte degli Stati italiani». In particolare, a Roma essa «ebbe una lunga vita». Anche «più lunga che in altri Stati». Addirittura, fino a metà Ottocento.
La città dei papi aveva alle spalle una lunga storia di grande considerazione nei confronti dell’Africa. Qui però non stiamo parlando di schiavi. I primi cinque africani giunsero a Roma nel 1404 inviati dall’imperatore d’Etiopia Däwit I. L’Etiopia, ricorda Caffiero, era identificata come il Paese governato, nella leggenda, dal famoso Prete Gianni. Agli occhi dei papi era un «mitico regno cristiano che poteva costituire un alleato nella lotta per la riconquista di Gerusalemme e contro i musulmani». Questo interesse romano per l’Etiopia durò a lungo. Interesse di natura «militare, politica, religiosa e simbolica» che indusse i pontefici a considerare ogni etiope alla stregua di «un personaggio di grande riguardo». Paolo III (papa dal 1534 al 1549, precedentemente cardinale protettore degli etiopi) tenne in grandissima considerazione quei suoi protetti africani presenti a Roma. E così fece anche la sua famiglia, i Farnese. Un anno prima della morte, nel settembre del 1548, Paolo III concesse loro in via definitiva l’uso della chiesa di Santo Stefano, istituzionalizzando così la presenza di quegli africani nella città eterna.
Dopo l’Etiopia fu la volta del Congo, scoperto e cristianizzato dai portoghesi nel 1491. Nel 1608 l’ottavo re del Congo, Nimi Ne-Mpangu Lukeni Lua Nuemba, inviò nella città del papa un suo ambasciatore, Na Vunda (che impiegò tre anni per raggiungere Roma). Paolo V colse «l’occasione di propaganda e di promozione mondiale del cristianesimo», sottolinea Marina Caffiero. E riservò all’ambasciatore, membro della famiglia reale del Congo, un appartamento nel palazzo Vaticano. Poco tempo dopo, nel giorno dell’epifania, l’ambasciatore morì. E ci fu chi dipinse quel diplomatico come un erede dei re magi (uno dei quali, secondo la tradizione, era nero). Paolo V, in omaggio all’ambasciatore defunto, commissionò allo scultore Antonio Caporale un busto in marmo nero che si trova nel battistero di Santa Maria Maggiore dove Na Vunda fu sepolto.
Un diverso trattamento veniva riservato ai nordafricani provenienti dal mondo islamico. Loro sì schiavi. Una condizione, la schiavitù, a cui non potevano sottrarsi neanche in caso di conversione. Vera o simulata che fosse. Secondo l’Inquisizione, il battesimo non comportava la liberazione dello schiavo convertito. Eppure, nel 1566, a qualche mese dall’elezione, Pio V aveva emanato un motu proprio che in un certo senso prevedeva l’emancipazione degli schiavi battezzati. Con tale provvedimento, il papa stabiliva che «coloro i quali, cristiani per nascita o per conversione, si fossero presentati di persona ai Conservatori nel Campidoglio – rappresentanti della municipalità romana – avrebbero ottenuto immediatamente sia la manomissione, sia la cittadinanza romana».
La disposizione papale, fa notare Marina Caffiero, «si opponeva in modo radicale alle norme e alla prassi condivise, tanto nel mondo cristiano quanto in quello dell’Islam, nell’area del Mediterraneo». Queste norme, come si è detto, prevedevano che «la conversione degli schiavi alla religione dominante nei territori in cui erano prigionieri non implicasse l’emancipazione». Perché? I «captivi» provenienti dal «campo avverso», catturati nelle guerre o nelle imprese corsare, costituivano una forza lavoro importante. E rappresentavano «una merce di scambio preziosa per i riscatti in denaro». Sicché, nonostante i tentativi di conversione fossero tutt’altro che infrequenti, «i passaggi di fede non dovevano e non potevano implicare come conseguenza immediata la conquista della libertà personale». Ovunque abitassero e qualunque fede decidessero di abbracciare, gli schiavi dovevano rimanere schiavi. Dopodiché, spiega Marina Caffiero, «uno schiavo convertito era percepito come più docile e rassegnato all’obbedienza». E, vista dall’ottica dello schiavo, «la conversione implicava la speranza di un trattamento migliore da parte dei padroni».
Ma nonostante quel che si è detto, si diffuse sempre più la percezione che la città «santa» fosse un «luogo di liberazione». In realtà, sostiene Caffiero, la percezione era più che giustificata. Serena Di Nepi – in Le Restitutiones ad libertatem di schiavi a Roma. Prime note su un fenomeno trascurato 1516-1645 (Carocci) – ha prodotto una fonte da cui si evince che la semplice presentazione di neoconvertiti schiavi al Campidoglio (con l’attestato di battesimo) implicava una deroga alla norma generale. Con l’acquisizione della libertà personale e anche della cittadinanza.
Ma chi erano questi schiavi musulmani? Come appendice al saggio della Caffiero viene pubblicato il prezioso Libro dei turchi (un «termine, “turco”, che nelle fonti europee era contrapposto a “cristiano” e stava ad indicare genericamente i musulmani; molto spesso era usato come sinonimo di “schiavo”»). Il libro consta di 67 fogli manoscritti, compilati lungo l’arco di un quarantennio che va dal 1759 al 1802 con l’intermezzo della Prima Repubblica romana (1798-99). Ne è autore il rettore – nel corso di quel quarantennio – della Casa dei catecumeni: Francesco Rovira Bonet. Rovira Bonet è «una figura molto interessante del clero romano di fine Settecento». Assai poco conosciuta, scrive Caffiero, «nonostante sia stato un personaggio di rilievo del gruppo degli intransigenti che circondava papa Pio VI Braschi». Nato a Perpignan, in Francia, nel 1724 (o ’25) «lo troviamo a Roma a metà del Settecento, già ordinato sacerdote». Divenne cappellano e confessore a San Luigi dei Francesi, la chiesa della sua comunità d’origine e fu membro della prestigiosa Accademia teologica dell’Archiginnasio romano della Sapienza. Era probabilmente «un ebreo convertito come lo furono tutti i rettori della Casa». Godeva, Rovira Bonet, della protezione del cardinale Alessandro Albani.
Il suo Libro dei turchi consiste in un «elenco di nomi di personaggi sconosciuti». Molti di loro vengono indicati come «schiavi del papa a Civitavecchia». Ma vicino a quei nomi è «appuntata spesso una piccola storia che sul piano metodologico rappresenta un riferimento di rilievo». La lista può essere considerata determinante dal momento che «non contiene soltanto numeri». Anzi, i numeri «ridiventano persone a cui ci si può sforzare di restituire una storia e un nome». Le donne sono solo quattro. Il Libro dei turchi è accompagnato da un’attenta presentazione della curatrice Micol Ferrara.
Cosa fu la Pia Casa dei catecumeni e dei neofiti di Roma? Fondata nel 1543, aveva il compito di sovrintendere alla conversione degli infedeli, vale a dire ebrei, musulmani e pagani. Fu creata quasi in contemporanea con la nascita dell’Inquisizione romana (1542). Assai prima dell’istituzione del ghetto di Roma (1555). La Casa accoglieva ebrei, musulmani e «pagani», cioè tutti i gruppi classificati come «infedeli». Il suo scopo era di avviarli, dopo un’istruzione religiosa, al «rito di passaggio e di aggregazione» del battesimo.
Le Case dei catecumeni furono, scrive Marina Caffiero, «nuclei di un processo di meticciato, di integrazione, forse anche di assimilazione e certamente di contaminazione culturale» di cui costituiscono un osservatorio d’eccezione. Ricovero di diverse categorie e gruppi di «stranieri», dal punto di vista sia confessionale che etnico e geografico. Ma unificati dalla definizione complessiva – e ambigua – di «infedeli». Le Case creavano a questo punto solidarietà tra i ricoverati, «strategie di confusione delle appartenenze nonché delle origini», «dissimulazione delle identità» e talvolta «costruzione di identità nuove».
L’istituto era la sede – «un vero microcosmo culturale ed etnico» – in cui «diverse alterità si incontravano, interagivano tra di loro e con il mondo esterno». Ciò che, evidenzia Marina Caffiero, «mette in campo questioni di non piccolo conto storiografico: la mobilità, le dissimulazioni, i cambiamenti di identità, di nomi, di appartenenze, gli scambi culturali, i ruoli delle diverse religioni, le integrazioni o assimilazioni, la creazione di network solidali e pluralistici».
La conversione degli ebrei veniva considerata più «pregiata», più «rilevante sotto il profilo teologico e culturale». Tra il 1614 e il 1797 furono ben 126 i cardinali che fecero da padrini a israeliti che «scelsero» di farsi battezzare. Con punte più alte nel Seicento. Il rettore della Casa dei catecumeni, Rovira Bonet, fu egli stesso padrino in una decina di battesimi. In qualche caso, per patrocinare questo tipo di cerimonia, si scomodarono addirittura dei pontefici. Ma va considerato di un qualche rilievo il fatto che ben 39 cardinali si fecero promotori di conversioni di musulmani. Anche in questo caso soprattutto nel Seicento.
Strano però che neri e musulmani che compaiono in molti quadri dell’epoca non siano stati oggetto di un apposito studio. Chiara Savettieri – in Le rappresentazioni dei neri nell’età moderna. Temi e questioni metodologiche (Carocci) – ha ipotizzato che l’assenza di studi italiani dedicati alla loro rappresentazione nell’arte sia dovuta al fatto che l’Italia è diventato un Paese coloniale solo nel tardo Ottocento. E che, in conseguenza di ciò, la storia dell’arte non ha avuto sensibilità verso temi di questo genere.
Marina Caffiero, pur riconoscendo l’importanza del lavoro della Savettieri, è parzialmente in disaccordo. Può darsi, anzi è probabile – sostiene – che gli italiani fossero poco consapevoli della tratta atlantica, ma è ampiamente provato che ben prima delle imprese coloniali ebbero una grande consuetudine con la tratta mediterranea. Forse allora il relativo ritardo di interesse per la rappresentazione di neri e musulmani nell’arte moderna è emblematico di «una mancata presa di coscienza» del ruolo che nell’economia degli Stati italiani ha avuto la «nostra» tratta degli schiavi. Vale a dire ad una «sottovalutazione dello schiavismo nella penisola». Si avverte la necessità di ulteriori indagini sulla scia di quella di Marina Caffiero.