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 2022  settembre 20 Martedì calendario

I 70 anni di Moncler

Se Moncler non va alla montagna, la montagna va da Moncler. E saranno 1.952 ragazzi in piumino bianco (modello Maya) a simboleggiare – con una coreografia by Sadeck Waff in piazza Duomo – le vette innevate più alte del mondo e, insieme, i 70 anni di un’azienda che ha cominciato a fare parlare di sé proprio conquistandole. Dall’Himalaya a Milano. E tutto torna. Remo Ruffini il presidente e ad che vent’anni fa inseguì un sogno e acquistò il brand di quello che era stato il suo capo da ragazzo è emozionato e soddisfatto, come il giorno in cui tutto cominciò.
Allora l’adrenalina era per la scommessa, oggi per il traguardo: «A volte mi chiedo chi avrebbe mai pensato che quel sacco a pelo nato nel 1952, e diventato poi un piumino, sarebbe arrivato nelle città di tutto il mondo e sarebbe stato indossato da tutte le generazioni, avrebbe raggiunto le passerelle per poi essere reinterpretato da diversi geni creativi?», si chiede sapendo di avere già dato parecchie risposte. E i 70 sono una di queste: con lo show in Duomo, ma anche le exibition nel mondo e poi le sette collab sul modello Maya: Francesco Ragazzi (Palm Angels), Thom Browne, Hiroshi Fujiwara, Rick Owens, Giambattista Valli, Pierpaolo Piccioli e Pharell William.
Forse nessuno ci credeva, magari nemmeno lei...
«Eppure eccoci qui, siamo riusciti a cambiare pelle, mantenendo le radici. Il mondo è andato veloce, eppure nonostante questo dallo sport siamo entrati nella moda e nel lusso, restando noi stessi. Ho voluto questa campagna che ripropone le immagine dal 1954 ad oggi proprio per questo: per ricordare alle persone della mia generazione da dove veniamo e per raccontare ai giovani la nostra bella storia per far capire che è possibile farcela mantenendo la propria identità. Penso sia un atteggiamento importante da trasmettere ai ragazzi. Poi la foto più bella sarà quella che scatteremo sabato: una montagna in piazza Duomo».
Farete nevicare a Milano?
«No, no. Ci saranno 1.952 ballerini che daranno vita a una coreografia incredibile in uno show unico. Indosseranno tutti il nuovo Maya».
Già, il piumino che era allora e che è oggi. Com’è possibile?
«Cambiato solo in materiali e proporzioni ma è sempre lui: il più venduto e riconosciuto. Gli ho solo cambiato il nome da Himalaya a Maya».
Perché l’esigenza di raccontare questa storia ai ragazzi?
«Ma perché ci sta che non sappiano per esempio che siamo nati nel 1952 e che facevamo giacche per scalare l’Himalaya mentre magari oggi con la stessa vanno a una festa. Eppure siamo sempre noi. Questa fedeltà, ripeto, mi piaceva trasmetterla. Spesso mi chiedono, anzi direi che è la domanda più frequente, cosa ho fatto per avere successo. Certo devi essere innovativo, avere una visione, ma sopratutto essere fedele a te stesso».
Mai «vacillato» su questa fedeltà?
«Sempre. Nel 2013 quando mi sono quotato, per esempio. Ma dentro di me volevo survival fashion: sopravvivere alla moda. Sapevo che non sarebbe stato facile, perché è semplice fare un prodotto di moda, seguire i trend, ma così rischi di perdere la tua identità e unicità. Ci credo a tal punto e l’ho così radicato che tuttora l’estate per noi non è il nostro mondo. Ci lavoriamo, ma noi eravamo, siamo e resteremo l’inverno. Venticinque per cento di fatturato nella stagione calda e il resto in quella fredda. Detto questo abbiamo così costruito un successo senza scendere a compromessi».
Sbagli?
«Tutti i giorni. Il problema non è l’errore ma non perdere la rotta. La critica costruttiva poi è utile».
I cambiamenti?
«Tantissimi. Negli ultimi anni in particolare abbiamo puntato su due elementi: dal possesso dovevamo passare all’esperienza dell’acquisto, e questo ci ha ripagato molto, e poi mi sono reso conto che nei paesi più maturi la gente non voleva più comprare un pezzo di moda, ma voleva far parte di una community. Detto questo non essere fashion non è facile. Ma io credo che la moda debba appartenere al brand e non viceversa».
Allora Moncler era il K2, un’impresa sportiva. La vetta di Moncler, al di là dei fatturati, quale potrebbe essere?
«Le imprese oggi sono altre. Non è una montagna fisica da scalare ma sapere parlare con le comunità del mondo, sapere comunicare con i giovani, insomma creare un’esperienza. Si parla è vero di digitale, ma è comunque uno strumento asettico, ci vuole la fisicità».
Per questo non più eventi in diretta (dunque digitali) come gli ultimi, ma uno show fisico, potente?
«Lo trasmetteremo dopo, sì. A clip. Credo che oggi il mondo ha bisogno di ritrovare un po’ di precisione».
Il piumino che l’ha emozionata di più?
«I primi, quando li vedevo addosso a personaggi come Elle McPherson, parlo del 2003...».
Al successo e senza «l’uso» degli influencer: un’altra vetta!
«Ma per noi l’influencer è il nostro consumatore».