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 2022  settembre 20 Martedì calendario

Intervista a Giuseppe Guzzetti


«D i Gran Lombardo, dopo Manzoni, ce n’è solo uno: Albertino Marcora come lo aveva definito Indro Montanelli». Giuseppe Guzzetti, avvocato, politico, già presidente della Regione, uomo forte delle Fondazioni di origine bancaria, padre delle Fondazioni comunitarie, dell’housing sociale e del grande Piano contro la povertà educativa infantile, questa intervista la chiuderebbe anche qui. Ma per gentilezza si sottopone alle domande: «Alla fine decideremo cosa fare delle risposte».
Ottantotto anni, nato a Cascina Piatti di Turate, ultimo paese del comasco al confine con Varese dove viveva con i genitori e un fratello, il nonno Biagio e l’amatissima nonna Carolina. Il nome è ereditato da quello di don Giuseppe Pagani, zio, professore e scrittore: «Aveva affermato in pubblico che la Chiesa aveva sbagliato a firmare il Concordato con un dittatore, così in pochi giorni si ritrovò parroco ad Osteno in Val d’Intelvi e fu tanto il dolore di questo “esilio” che in pochi mesi morì e neppure lo seppellirono nella cappella dei parroci ma nei colombari». Famiglia profondamente antifascista, «ho morsicato in casa la mela della politica». Nel ’53 per venti notti consecutive, d’accordo con il vicerettore don Luciano Ravasi, scappò dal collegio Ballerini di Seregno dove studiava, perché ogni sera teneva un comizio a Giussano con l’amico Paolo Barzaghi: «Spiegavamo che De Gasperi non aveva fatto una legge truffa. Chi aveva il 50,1 per cento prendeva il 5 per cento dei posti in più. La legge con cui andremo a votare il 25 settembre regala il 70 per cento dei seggi a chi ha ottenuto il 43 per cento: quale delle due è la vera legge truffa?».
Perché cita spesso Cascina Piatti?
«Perché lì ho imparato la fatica dei contadini e lo spirito di solidarietà tra di loro. Per fortuna c’erano i preti della diocesi ambrosiana: le cooperative di consumo le hanno inventate loro per consentire ai contadini di comprare beni di prima necessità pagando quando arrivavano i proventi dei raccolti o della vendita dei vitelli. Poi c’era il problema delle mucche».
In che senso?
«La mucca era l’investimento più importante perché dava il latte e si vendevano i suoi vitelli. Ma se la bestia andava abbattuta perché si ammalava, allora era una tragedia perché perdevi tutto. Così il parroco si inventò la “cooperativa de la vaca morta” convincendo i contadini a partecipare: ognuno in cascina ne comprava un pezzo e lo usava come carne e con quei soldi se ne prendeva un’altra».
Torniamo al Collegio Ballerini di Seregno.
«Dico sempre che “Quello che in alto dirige il traffico” mi ha fatto molti doni, e l’istruzione è uno dei più grandi e sono profondamente grato ai miei genitori che mi hanno consentito di studiare. Io me li ricordo i miei coscritti: Mario che dopo sei anni di prima elementare è rimasto analfabeta e Battista che era in quarta il papà gli ha detto basta scuola, perché aveva bisogno che andasse a lavorare. La mia tensione sui bambini mi è nata lì: perché loro non potevano più venire a scuola?».
Dopo il Collegio, l’Università Cattolica.
«Il professor Francesco Vito ci insegnava che l’Economia deve essere al servizio dell’uomo e non per lo sfruttamento. Ho fatto una tesi sulla Cassa Depositi e Prestiti con il professor Feliciano Benvenuti e 50 anni dopo avrei portato le Fondazioni nell’azionariato di Cdp: vede che Quello che regola il traffico aveva già in mente tutto?».
E diventa avvocato.
«La prima “difesa” l’ho fatta mentre ero al secondo anno: i contadini della Cascina avevano ricevuto l’avviso di sfratto ed erano venuti da me, “Giusepin devi salvarci”. Con due esperti in Agraria sono andata a Roma e ho ottenuto dalla Cassa della Piccola proprietà contadini un mutuo pari a circa l’80 per cento del prezzo pattuito a tassi bassissimi, una legge voluta dalla Dc. Abbiamo fatto una lunga trattativa per il restante 20% e alla fine arrivammo alla firma e comprarono la terra».
Ma in realtà la sua passione era la politica.
«Un sindaco delle mie parti mi aveva messo in mano alcuni giornali di politica: io comincio a Como e conosco Cesare Golfari che era a Lecco, entrambi democristiani, entrambi futuri Presidenti della Regione. Nel 1970 divento consigliere regionale e dal 1979 al 1987 sono stato Presidente: il centralismo e l’antiregionalismo di Roma ci costringeva a negoziare su ogni legge che il Consiglio regionale approvava e tutti i trasferimenti economici erano vincolati».
Dicevano che lei sia stato leghista prima che esistesse la Lega, vero?
«Lo disse Ciriaco de Mita. Ma gli spiegai che se non avessimo affrontato la questione settentrionale per noi sarebbero stati guai: il lombardo non chiede di non pagare le tasse ma di avere investimenti adeguati che Stato e aziende di Stato non facevano alla Lombardia».
Qualche esempio?
«La mobilità: noi non avevamo collegamenti e tutto quel traffico portava inquinamento e costi alle aziende. I ministri veneti avevano la PiRuBi, quella di Piccoli, Rumor e Bisaglia; Nicolazzi si era fatto la sua autostrada in Piemonte. E noi? Avevamo le strade statali ferme al secolo precedente. Marcora ottenne un incontro a Roma col ministro Nicolazzi e arrivarono finalmente i fondi per realizzare le grandi vie di collegamento».
Lei presidente e Carlo Tognoli sindaco: voi centrosinistra e loro sinistra: come erano i rapporti?
«Con Tognoli erano ottimi: le istituzioni vanno sempre tenute al riparo dagli scontri politici e di schieramenti. Uno dei primi atti del mio mandato fu l’approvazione della prima Legge Urbanistica che salvaguardava le aree agricole e a verde riducendo il consumo disordinato di suolo. Si deve a Tognoli l’approvazione poi del primo piano urbanistico di Milano che avrebbe cambiato il volto di Milano. Nostra anche la Legge sui Parchi: avevamo capito che l’ambiente andava protetto».
L’amicizia con Marcora?
«Che grande uomo! Aveva una fattoria a Bedonia, una moglie eccezionale cui era legatissimo. Marcora era stato capo partigiano nell’Ossola e aveva lanciato la Base a Belgirate, la corrente della sinistra Dc. Aveva saputo che in Cattolica c’erano degli studenti meridionali molto in gamba, i fratelli De Mita, Misasi, Bianco: li coinvolse con Luigi Granelli, Galloni e Pistilli. Marcora fu il miglior ministro dell’Agricoltura della nostra storia perché sapeva di cosa parlava e si faceva rispettare dai suoi colleghi in Europa. Non ci avevano mai filati, quando arrivò lui a fissare i prezzi agricoli di conferimento alla Comunità insistette sulla equa distribuzione. Li tenne inchiodati al tavolo un giorno e una notte e alla fine cedettero e concordarono i prezzi. I funzionari italiani avevano le lacrime agli occhi per l’orgoglio».
Oltre alla sua famiglia e a Marcora, chi altri l’ha ispirata?
«Il cardinale Martini. Io venni eletto nell’ottobre ‘79 e nel febbraio ’80 fa il suo ingresso a Milano. Erano gli anni del terrorismo, stavamo fianco a fianco durante i funerali di giudici, magistrati, professori, uomini delle forze del’ordine. Amo paragonarlo a sant’Ambrogio: fu un punto di tenuta insostituibile delle istituzioni e della città, oltre che un profeta della chiesa. Il suo magistrato civico di richiamo al dovere di servizio dei politici, la condanna della corruzione: anche quando diceva che la Chiesa era indietro di 200 anni penso sia stato un precursore del Sinodo di Papa Francesco».
Vi frequentavate anche in privato?
«Avevamo in comune l’amore per la montagna. Lui un giorno alla settimana lo dedicava alla meditazione e d’estate passava alcuni giorni in Trentino e veniva al Collegio Rotondi di Campestrin dove ero con la mia famiglia. Gli ho fatto da guida in molte escursioni: io, lui e don Renzo siamo arrivati fino sulla Marmolada. “Quando siamo in montagna siamo solo due che amano la montagna”, diceva. E parlavamo molto».
E veniamo alla Fondazione Cariplo.
«Con la Finanziaria del 2001 il governo Berlusconi-Bossi-Tremonti aveva reso pubbliche le Fondazioni che invece sono enti privati senza scopo di lucro e con finalità sociali con piena autonomia, come stabiliva la legge Ciampi. Noi impugnammo l’ordinanza di Tremonti al Tar del Lazio, andammo alla Consiglio di Stato che ci diede ragione e confermò la Ciampi mettendo in sicurezza le Fondazioni».
I risultati di cui va più fiero?
«La mia presidenza non aveva avuto inizialmente un consenso unanime perché Berlusconi mi accusava di essere troppo di sinistra e di non aver votato, da senatore, la Legge Mammì. Ma credo negli anni di aver dimostrato autonomia, equilibrio e trasparenza: su oltre 30mila erogazioni non abbiamo avuto alcuna contestazione. Un merito non mio, ma della squadra di altissimo profilo che lavorava con me. Risultati? Il piano sulla povertà educativa infantile perché noi adulti siamo responsabili del futuro di ogni bambino; Fondazione con il Sud che realizza progetti straordinari per l’infrastrutturazione sociale del Meridione; le Fondazioni di Comunità, perché credo sia questo il futuro cui guardare per rispondere ai bisogni di tutti i territori. E sono grato al mio successore Giovanni Fosti: davvero non ha fatto rimpiangere la mia presidenza».
In tutto questo, non mi ha detto nulla della sua famiglia.
«Mia moglie Romana è stata una donna straordinaria e generosa: era una maestra, l’avevo conosciuta in montagna a Moena, siamo andati a fare una escursione, le ho prestato un paio di calzettoni e non ci siamo più lasciati. Abbiamo avuto quattro figli e 8 nipoti e lei si è sempre occupata della famiglia perché io ero in giro per la politica e non me lo faceva pesare. Adesso che comincio a fare un po’ di conti col passato, ecco, questa è la cosa che potendo cambierei: vorrei essermi occupato di più della famiglia».