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 2022  settembre 20 Martedì calendario

Il nuovo romanzo di Gabriele Romagnoli

Sogno bianco si apre nella dimensione onirica, che all’alba ci immerge nella «sensazione di aver sognato, ma senza riuscire a ricordare cosa». È il sogno bianco, appunto. A sognare è Andrea Darman, che conosce quella sensazione fin da bambina. È come quando si legge un libro, ma arrivati in fondo ci si accorge di aver solo girato pagine bianche. Non sarà forse questa una indicazione di lettura dell’autore?
Gabriele Romagnoli è il narratore dei destini che si incrociano, dei fili della vita che scorrono apparentemente paralleli e distanti, e che invece all’improvviso si scoprono intrecciati, spesso proprio a «un bivio di scelte» fondamentali che cambiano il corso delle storie. Ama mettere in scena personaggi che, senza saperlo, sono tutti sottilmente connessi tra loro. E i legami si scoprono alla fine. La libertà è sempre salva, anche all’ombra dell’ironia del destino.
Classe 1960, ha piantato il chiodo del significato profondo della sua scrittura in un libro del 1998, Passeggeri. Catalogo di ragioni per vivere e volare. Lì scriveva: «Quand’è che una persona sa chi è e quale è la sua ragione per vivere? Quando sta in trincea, quando ama, quando fa quello che ama, quando sta per morire, quando ha un istante per scegliere se salvare una vita o, soltanto, salvarsi la vita?».
In Sogno bianco Romagnoli sceglie innanzitutto la trincea per introdurci nella storia dei tre discendenti della famiglia Darman, le cui esistenze si intrecciano nel confronto con il «Ghiacciaio M.», quello della Marmolada, la montagna più alta delle Dolomiti. È sì una montagna, ma è anche la «Città di Ghiaccio», quel complesso di gallerie e cunicoli costruite dagli austroungarici per collegare le diverse postazioni in quota bersagliate dalle truppe italiane, che fecero di tutto per conquistarla, impegnandosi in una terribile guerra sotterranea, combattuta a colpi di martelli pneumatici e mine.
È il 1917: il primo Andrea Darman si sveglia con una gamba maciullata dentro la città di ghiaccio dopo uno scontro e un crollo interno. La narrazione è un flashback che dispiega un mondo dipietas e spietatezza, tenacia e sentimento. Eroismo e vigliaccheria si mescolano. Non ci viene risparmiata neanche la tragedia che porta Andrea a dover far parte del plotone di esecuzione di un commilitone suo amico e condannato per diserzione. E allora? «Che cosa ci guida quando scegliamo da che parte metterci? Alle fine: l’estensione del dominio dell’amore. Fare la scelta che consente di amare di più. Quella che salva e non quella che elimina. Non è una giustizia quella che toglie le vite. Lo si capisce quando si finisce nel suo ingranaggio». E così scopriamo un’umanità che vive la ferita, «ma così in profondità da non mostrare i tagli e da non sentirne gli effetti».
Andrea torna a casa per una licenza premio, anche se ha il ghiaccio dentro e non ama le tregue perché hanno la fine già scritta. Fa l’amore con la sua Maria e, «proprio quando raggiunse l’orgasmo Andrea si vide riflesso e gli sembrò il volto esausto di un uomo che muore. Si lasciò andare sul cuscino, tra i capelli di Maria, chiedendosi se aveva visto il futuro o il passato di miliardi di uomini che avevano condotto la specie fino a lì e che un giorno l’avrebbero distrutta». L’ultimo desiderio di Andrea sarà quello di una assoluzione sacramentale, come a far scendere il perdono su scelte e destini. L’unico suo ricordo è affidato alla sua piastrina di latta: «Voleva scrivere chi era stato, definirsi per sempre. Decise che gli estremi erano la maniera per farlo. Scrisse: “Ho amato mia moglie, ucciso un amico. Andrea Darman”».
Il secondo Andrea è una guida alpina che combatte l’invasione turistica degli anni Ottanta con atti di sabotaggio e ribellione. La montagna, infatti, ha cambiato faccia alla fine di quel decennio a causa dell’assedio turistico: gli impianti, la faraonica funivia, famiglie e comitive che invadono le piste. Andrea, nipote del soldato, è un maestro di sci solitario che prova a mandare giù il mito del progresso e i suoi effetti. Questo Andrea si trova la piastrina del nonno in mano per caso, come fosse un sasso. La apre. Distingue subito le parole «amato» e «amico». Decifra le parole e gli sembra di leggere: «Addio». I legami tra storie sono tenuti da oggetti che inconsapevolmente abbracciano vite e costruiscono ponti invisibili. Non seppe mai che era appartenuta a suo nonno, in realtà, ma percepì «una oscura vicinanza». Romagnoli è maestro di questi legami profondi come le ferite, segrete e mortali.
Andrea incontrerà il suo destino finale salvando dalla montagna chi, fatalmente, lo avrebbe portato alla morte accidentale, quella bambina, di nome Didi (cioè Andrea), che era – senzache lui lo sapesse – sua figlia, nata da Maria che aveva incontrato per un errore (del destino?) sulle piste da sci.
La terza Andrea è proprio Didi, una donna ribelle che troviamo in cella. Era diventata una formidabile hacker in contatto con dissidenti di ogni genere; «la donna elettrica», che lavorava grazie a miriadi di identità digitali. Incarnava la solitudine del padre. Era figlia unica, e «i figli unici si abituano fin da piccoli alla compagnia esclusiva di se stessi, creano universi e li abitano diventandone non gli imperatori, ma gli esploratori, curiosi della loro stessa fantasia». I figli unici «possono diventare clandestini, esiliati, carcerati: Andrea sarebbe stata tutte e tre le cose». Ma in che senso si può essere davvero «unici» nel mondo dei racconti di Romagnoli?
Ora sta per uscire dal carcere. Le mancavano un paio di settimane, ma il rilascio è anticipato per la morte della madre, Maria, che vuole che le sue ceneri siano sparse a precise coordinate geografiche. Andrea sa dove, e non ha bisogno di verificarle: la capanna dove è stata concepita. A 18 anni ha saputo tutta la verità. Lì sul pianoro incontra ragazzi e ragazze che corrono, ballano e fanno festa. Era una protesta contro lo sfruttamento turistico: la montagna era stata violata e il ghiacciaio arretrava. Indossavano teli con grandi lettere rosse che, composte insieme, componevano la scritta: «Il futuro non si scioglie». Superfluo dire che questa, in realtà, è una chiave di lettura del romanzo (come di tutte le storie della vita).
È strano disperdere ceneri su un ghiacciaio che muore, non più che portare le ceneri della propria madre lì dove lei ti ha concepito. È la notte tra il 4 e il 5 agosto 2037. Andrea sparge la cenere con gli occhi chiusi. Riapre gli occhi e vede scendere la neve in un contrasto che è ossimoro e miracolo. Romagnoli inventa un’epica umana e ambientale, dove la natura è specchio del destino umano. Ma al destino non si va incontro. Lo dice a un certo punto Maria, madre di Didi-Andrea: «Aveva sempre compatito chi pensa di poter scongiurare un destino andandogli incontro: le madri che aspettano i figli alla finestra, le mogli che telefonano per sapere a che punto della strada è il marito. Tutto si compie inevitabilmente, tutto è già compiuto». Resta la domanda su che cosa possiamo salvare.