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 2022  settembre 20 Martedì calendario

Il Subbuteo va ancora di moda

Subbùteo o Subbutèo? Ci si accapiglia ancora, e ognuno si tiene la propria versione sulla corretta pronuncia del gioco, che prende il nome dalla denominazione in latino del falco lodolaio. Ma chiamatelo pure come volete: adesso e all’epoca l’importante era giocare, e non smettere mai. Certe notti, certi pomeriggi, finivano subito, tutti chini sudati e concentrati su un panno verde quasi in scala 1:100 del vero campo da calcio, di solito srotolato e stiracchiato in terra, i più fortunati quelli che avevano la moquette, i fortunatissimi con le loro belle tavole di legno, e il panno inchiodato sopra, mentre i veri califfi avevano anche tribunette, pubblico finto, riflettori e tabellone col risultato. Alla fine di certe ore da sogno, dolori alla schiena e al collo per quello stare ingobbiti sul paradiso, e le rotule che urlavano per via del tempo trascorso in ginocchio sul pavimento (i più scaltri si ricordavano di metterci sotto dei cuscini, ma erano un ingombro che non tutti tolleravano, nella foga del gioco). Era il nostro calcio in punta di dito: non con la schicchera, per carità, quella era una cosa brutale e nemmeno valeva, invece il dito (indice o medio) deve scivolare e fare leva sul panno, non sul pollice, prima del tocco al giocatore. Non lo sapevamo ma era il nostro calcio in 3D perché i giocatori sembravano proprio veri, quando ondeggiavano sul loro supporto bombato (adesso è più piatto: delusione). Storie e passioni degli anni Settanta e Ottanta, fino ai Novanta, quando poi i videogiochi si portarono via l’incanto e il grande pubblico, anche se il fatto che proseguano i campionati del mondo, e che ci siano tuttora bravissimi giocatori di qualsiasi età, fa capire che il fascino del Subbuteo travalica le epoche, come un tram a cavalli che qualcuno ancora usa, nell’era dei jet privati.
UNA FEBBRE
Si organizzavano seratine e seratone, si era fedeli al gioco, era una febbre. Col sospetto di essere un po’ giuggioloni a scuole dell’obbligo ormai terminate da un pezzo, ma il senso di colpa svaniva subito, anche a 25 o a 30 anni, anche se la fidanzata protestava: scusa, ma ho la seratina di Subbuteo, e la cosa incredibile è che non era mica una scusa da fedifraghi, andavamo proprio lì. Ogni casa aveva un nome: il Cibali, il Bernabeu, Highbury, la Bombonera, a seconda delle caratteristiche del campo, del padrone di casa e del suo modo di giocare. Abbiamo visto futuri stimati professionisti della città, una notte di primavera del 1990, tirare l’alba in una grande casa romana perché quella volta si giocavano i Mondiali di Italia 90: 24 giocatori, ognuno con una squadra di quei Mondiali, si batterono fino all’alba, con sottofondo di telecronache, litigi, amicizie che sembravano perenni ma venivano incrinate da una contestazione su un gol, e c’era chi se ne andava sbattendo la porta. Si era fedeli al gioco, fedeli nei secoli alla propria squadra, custodita dentro la scatola che ormai andava sbrindellandosi per l’uso continuo, e i giocatori tirati fuori uno a uno prima della partita, c’era chi li dipingeva con le tempere, chi gli attaccava amorevole i numerini dietro la schiena: i più cari erano quelli che si erano rotti, cadendo a terra dal tavolo o schiacciati per sbaglio nei frenetici movimenti intorno al campo, ed erano stati riparati con la colla a presa rapida; per gli incidenti più gravi qualcuno ricorreva addirittura a saldature col fuoco, dando vita a giocatori ormai di metà altezza che erano i nostri Nobby Stiles o Furino o Benetti, i lottatori. La colla o il fuoco, e pure il ferro da stiro per eliminare tutte le piegoline dal panno verde (i più incauti lo stiravano sul lato del campo e combinavano guai), oppure, sempre saccheggiando la credenza di casa (le mamme davano permessi sospettosi) c’era chi ricorreva agli spray per lucidare i mobili o alle scioline più strane per far scorrere meglio i giocatori sul panno. Giocatori che possono toccare solo tre volte la palla, mentre chi difende effettua altrettanti colpi di piazzamento, finché si calcia in porta solo dentro la linea di tiro: queste le regole basilari. I più tecnici, ossia i più bravi, sono quelli che sanno dare gli effetti giusti al colpo di dito, facendo compiere ai giocatorini dribbling e tiri a effetto verso la porta, difesa dal portiere mosso con lo stecco dietro. Era ed è la simulazione più entusiasmante del gioco del calcio (molto più dinamico e verista del calcio balilla), infatti l’ha inventato nel 1947 un inglese, Peter Adolph che diventò giustamente Sir, ma aveva preso spunto da un altro gioco inventato da uno di Liverpool. È una febbre che è rimasta in circolo, forse la forma più onesta e bambina di passione per il calcio. Negli ultimi anni si è sviluppata anche la febbre del collezionismo (in Italia il nome di riferimento è Alessio Lupi), con squadre che arrivano a costare qualche migliaio di euro, per le rarità più preziose. Era, ed è, un modo per stare insieme, divertendosi a contatto di gomito con altri esseri umani: i videogiochi invece portano nella direzione opposta. Dunque viva il Subbuteo, qualsiasi sia il suo dannato accento giusto, e ammesso che sia mai importato a qualcuno.