Sette, 30 gennaio 2021
Sull’epistolario coniugale di Giulio Andreotti
«Cara Liviuccia, ieri ho ripensato spesso alle tue preoccupazioni per la mia salute, ma devi tranquillizzarti perché è una stagione nella quale ho più appetito del solito ed ho raramente il mal di testa piccolo, mentre quello grande l’ho avuto solo sabato mattina, legato alla cena al caviale della notte precedente. Del resto, esiste la grazia di stato della quale io sono testimone ormai da tanti anni, e non solo come resistenza fisica. Dunque sta allegra…». Data: 10 agosto 1960. Firmato: «Iulius». Liviuccia? Mal di testa «piccolo» e «grande»? Iulius? Andreotti che usa un vezzeggiativo affettuoso è l’ennesima sorpresa postuma che filtra dalla maschera di imperturbabilità del personaggio. Viene quasi il sospetto che le prime righe, anzi, l’intero testo di questa lettera datata 10 agosto ’60 siano un falso. Fake news, come direbbe chi pensa di sapere l’inglese. Poi si scorge sul foglio la testata con la scritta «PAX» attraversata da una croce, e quel logo evoca luoghi vaticani o comunque ecclesiastici, effettivamente andreottiani. Si scorrono altre lettere con l’intestazione «Consiglio dei ministri», e la diffidenza comincia a vacillare.
Le trecento missive di Iulius
Gli indizi sono troppi. Anche la grafia somiglia maledettamente a quella del futuro «Belzebù», e alla fine ci si trova davanti un epistolario che conta circa 300 lettere. E si è costretti all’evidenza sorprendente che sì, Andreotti scriveva alla moglie Livia chiamandola quasi sempre Liviuccia, qualche volta «caro scoglio»: non si capisce se perché per lui era un appiglio o un ironico ostacolo. E concludeva la corrispondenza con lei firmandosi a volte Giulio, altre «Iulius », in latino. Purtroppo non si sa in che modo lo apostrofasse la signora Livia: probabilmente sarebbe stata in grado di sorprendere perfino più del marito. Ma lei la corrispondenza con Giulio l’aveva conservata, mentre la posta ricevuta da «Iulius» è andata perduta.
Si può solo dedurre qualcosa dalle parole andreottiane. Quelle, ad esempio, di una lettera datata 7 agosto, alle ore 18, su carta intestata «Consiglio dei ministri», nella quale Andreotti scrive: «Cara L., anche se ieri sera mi hai un po’ strapazzato al telefono (ma per verace affetto, che tanto mi lusinga), ti dico con assoluta schiettezza che sono lietissimo di essere alla vigilia, ormai, delle nostre vacanze…». Firmato: «Giulio», con la postilla dei «Baci ai bambini».
L’ictus del presidente Antonio Segni
L’anno dev’essere il 1964. L’allora ministro, infatti, spiega alla moglie di avere ripreso in mano la lettera dopo due ore di interruzione del Consiglio dei ministri, «dovuta alla paralisi che ha colpito Segni»: Antonio Segni, capo dello Stato dal 1962, che nell’agosto appunto del 1964 fu costretto a lasciare la presidenza della Repubblica in seguito a un ictus. «Speriamo che possa riprendersi, ma per il momento non si può dire niente. (…) Oggi si è accasciato dopo avere parlato (ed in tono sereno) con Moro e Saragat. Gli stessi lo hanno sostenuto ed i corazzieri lo hanno portato – senza conoscenza e parola – a letto. Per mezz’ora non si è trovato un medico!... ». La lettera si chiudeva con l’impegno a scriverle il giorno dopo «più diffusamente. Scusa», aggiungeva, «se non ti avevo detto dei denti, ma sida lontano ci si preoccupa di più. Sto benissimo. Baci ai bambini. Giulio».
Sessant’anni di complicità coniugale
È sorprendente constatare che Andreotti raccontava alla moglie, se non tutto, molte cose anche riservate. Evidentemente esisteva tra loro un rapporto di fiducia così profondo da eliminare quasi completamente la riservatezza che il marito sfoggiava con gli altri, al punto da essere diventata leggendaria. Anche per questo, scorrere quelle lettere incuriosisce quasi più che sbirciare nei milioni di carte del suo archivio segreto o dei suoi diari privati. Costituiscono l’unico documento che permetta di violare in qualche maniera la privacy del matrimonio e dei loro rapporti: uno dei segreti più protetti da quest’uomo di potere. Tolgono parzialmente il velo su un sodalizio familiare e una complicità coniugale durati sessant’anni, che probabilmente oggi si riescono a mettere meglio a fuoco solo perché sia Giulio Andreotti sia la moglie Livia Danese sono morti.
I figli hanno trovato le buste con dentro quei fogli con l’intestazione di luoghi istituzionali, di conventi e alberghi, da quelli europei al Taj Mahal di Bombay, dopo che il 29 luglio 2015 se n’è andata anche lei, la «Colonnella». Sono spuntati dal fondo di una vecchia scrivania nell’appartamento di corso Vittorio Emanuele II, dentro alcune custodie ordinate in un sommario ordine cronologico. In quelle pagine scritte con una calligrafia minuta e via via meno comprensibile con il passare degli anni, scorre il trantran ministeriale di un «marito in città» o fuori per lavoro, mentre moglie e quattro figli sono al mare o in montagna, o aspettano il suo ritorno a Roma. Le prime portano la data del 1947, quando Andreotti cominciava ad affacciarsi ai piani alti del potere politico, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Alcide De Gasperi. E si fermano più o meno a metà degli anni Sessanta.
Note all’alba per la famiglia in vacanza
È l’arco di tempo nel quale la famiglia si divideva in estate, tenendosi in contatto con qualche telefonata e soprattutto con quelle note scritte nei ritagli di tempo su fogli improvvisati, tra una riunione e l’altra; oppure all’alba delle notti semi-insonni di Andreotti. Sullo sfondo si intravedono l’Italia e la Roma del dopoguerra dopo il secondo conflitto mondiale. In una delle prime missive, del 2 settembre 1947, ci sono le venditrici di sigarette ambulanti che in piazza San Silvestro, a Roma, incrociano Andreotti. «Un gruppo di venditrici di sigarette» scrive a «Liviuccia» «mi ha salutato calorosamente: “L’ho vista ar Cinema di Venezia”». E in quel loro modo di apostrofarlo in romanesco evocano i cinegiornali di allora, nei quali «il Sottosegretario» era una presenza fissa, immortalato anche al Festival del Cinema: la televisione non esisteva ancora, in Italia: sarebbe arrivata solo nel 1954.
Il barbiere di Gronchi a piazza Barberini
Andreotti sembra ansioso di raccontare alla moglie quasi ogni fatto e fatterello che gli capita durante le sue giornate. Descrive quello che mangia, dove è stato, chi ha incontrato. E da quelle righe affiorano una familiarità e una confidenza profonde. Lettera del 10 agosto 1960: «Tappa da Torquato, che mi ha offerto un rabarbaro freddo; era sceso a Roma per acconciare il supremo, che gli aveva all’uopo telefonato dai monti…». E spunta la sagoma del barbiere di piazza Barberini dove si facevano i capelli i potenti di allora: Torquato, appunto. Il «supremo» che aveva chiamato il povero barbiere e lo aveva fatto tornare a Roma in pieno agosto dalla sua meritata vacanza era Giovanni Gronchi, l’allora presidente della Repubblica. Andreotti proseguiva: «A mezzogiorno ero dalle suore e quando ho parlato con te stavo già terminando di mangiare (pasta-carne e contorni, dolce, pera). Suor Serena e Suor Gloria – cui si sono aggiunte Irene e Clara – facevano da assistenti al soglio…».
Pagine fitte tra pranzi forti e cene frugali
In quella stessa lettera, due pagine fitte, informa anche: «Pranzo con Ceccherini alla mensa» del Viminale, nel 1947 ancora sede della presidenza del Consiglio. Andreotti elencava diligentemente a «Liviuccia»: «Asciutta-carne-carciofini-provola- uova»: dove asciutta stava per pastasciutta, e dalla descrizione si capiva che non si faceva mancare nulla, anche se poi per cena informava di essersi trattenuto molto. Condensava la frugalità in una sola parola: «Latte». Ma qui e là spunta qualche annotazione che getta una lama di luce sulla carriera politica andreottiana e sui suoi estimatori, o protettori che dir si voglia. La lettera alla moglie del «22.VI.63» incomincia raccontando: «Mentre tuo figlio canticchia “Crudelia, non so che cosa”, ti scrivo due righe a integrazione e complemento delle telefonate quotidiane. Quanti avvenimenti in pochi giorni!». Il figlio era probabilmente Lamberto, il secondogenito.
Il parere di Montini chiesto da De Gasperi
Andreotti commenta l’elezione di Giovan Battista Montini al Conclave del 1963. Diventò Papa il 21 giugno, assumendo il nome di Paolo VI. E lui il giorno successivo scrive alla moglie: «La nomina di Montini mi ha fatto ricordare quanto mi disse una volta De Gasperi: “Non la conoscevo abbastanza nel 1947 e chiesi a Monsignor Montini un parere sulla scelta di Lei per Sottosegretario alla Presidenza; me lo dette molto incoraggiante e positivo”. Un Papa saggio, dunque…» chiosava Iulius, confermando come fosse stato intenso il legame con il Vaticano di Pio XII e di Montini: forse decisivo per la sua ascesa nel governo degasperiano. Ma Andreotti sarebbe stato a proprio agio anche se avessero eletto il cardinale Giacomo Lercaro, che nello stesso Conclave ottenne una ventina di voti. Faceva sapere infatti a Livia Danese: «Stamane sono stato alla messa di Lercaro che è ormai diventato di famiglia a Priscilla; ci sono tornato anche alle 13 a colazione. Ormai non ci sono ostacoli di etichetta o di cautela giornalistica. Non c’è tutta la turba che lo aveva assediato fino all’ingresso in Conclave. Sic transit gloria mundi...».
Orgoglioso dei risultati scolastici dei figli
Rispunta il politico democristiano che andava a mangiare, e quando la famiglia non c’era anche a dormire, dalle suore che abitano sopra le catacombe di Priscilla, sulla via Salaria, che conosceva una a una per nome; che pranzava con i cardinali, e non solo italiani, perché nella stessa lettera informava la moglie: «Martedì alle 13 colazione con Spellman», arcivescovo di New York e amico dei Kennedy. Ma in parallelo cercava anche di non trascurare i figli. «Mercoledì devo andare in Sardegna e vorrei portare Lamberto. Ti sentirò per telefono. Verremo giovedì al Circeo», la cittadina di mare dove la famiglia trascorreva le vacanze estive. E aggiungeva: «Sono orgoglioso dei risultati scolastici dei figli. Grazie!» comunicava sottolineando la parola, quasi riconoscendo alla moglie il ruolo di prima educatrice della prole: una educatrice inflessibile. «In genere non si è soddisfatti e tutti cercano di prendersela con i professori e simili… Domani non abbandono Roma e il figlio. Stasera niente concerto a Zagarolo perché c’è il giuramento. Lunedì sera pranzo per Lamberto… Baci ai figli. Iulius», sottolineato anche quello.