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 2022  agosto 13 Sabato calendario

Intervista a Luigi Boitani, massimo esperto di lupi

Homo homini lupus. Sì, forse aveva ragione Plauto. Ma Luigi Boitani aggiorna la massima del commediografo latino: «Potrei intrattenerla per le prossime due ore e alla fine lei non saprebbe se ho parlato dell’uomo o del lupo, tanto sono incrociati i nostri destini. La verità è che uomini e lupi sono uguali». Lo zoologo ha dedicato 50 anni della sua vita a studiare come difendere i secondi dai primi. È considerato il più grande esperto di questi canidi nel Vecchio Continente: nel 1972 fu il primo a catturarne uno. Da un quarto di secolo presiede la Large carnivore initiative for Europe, che raduna 58 scienziati di 35 Paesi. Dopo la laurea in scienze biologiche, Boitani è cresciuto a Yale, alla scuola di George Evelyn Hutchinson, massimo studioso della conservazione di tutte le specie, considerato il padre dell’ecologia moderna. Conosce ogni segreto dei 3.300 lupi che si aggirano per l’Italia: «La stima è dell’Ispra, aggiornata a giugno 2022. Mai vista prima d’ora una simile espansione». 
In cattedra dal 1987, Boitani ha presieduto pochi mesi fa l’ultima sessione d’esami in ecologia animale e biologia della conservazione alla Sapienza di Roma. Ora è in pensione, nei limiti in cui può esserlo uno specialista che ha coordinato i piani di gestione di oltre 30 parchi nazionali, dalla Maiella in Italia al Queen Elizabeth in Uganda, fino all’Akakus park in Libia: «Mancava solo la firma di Gheddafi, ma lo ammazzarono». Ha trovato il suo buen retiro in provincia di Siena, poco distante da San Galgano, l’antica abbazia gotico-cistercense priva del tetto. A 300 metri c’è una tana di lupi. 
Se li è scelti come vicini di casa. 
«Arrivai prima io. Sono stati attirati da cervi, daini, caprioli e cinghiali». 
Come nasce la familiarità con i lupi? 
«Per caso. Mi laureai con una tesi di entomologia, sulle libellule. Nel 1972, tornato da Yale, volevo studiare le capre dell’isola di Montecristo, nel Tirreno. Ma ricevetti una telefonata da Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia: “Vorremmo saperne di più sul lupo. Te la senti?”». 
E poiché se la sentiva, che cosa fece? 
«Cominciai a girare l’Italia centrale e meridionale, raccogliendo dati e testimonianze. Era la prima ricerca del genere in Europa. Ma per capirne di più bisognava catturare qualche esemplare. Chiamai David Mech, che stava studiando l’ultima colonia di lupi rimasta nel Minnesota. Negli altri Stati d’America, a parte l’Alaska, erano estinti. Mech arrivò con trappole inoffensive e radiocollari. Siamo ancora amici per la pelle. Presto andrò a festeggiare i suoi 85 anni». 
Quanti lupi catturaste? 
«Due. Poi continuai la caccia con l’aiuto di Erik Zimen, uno svedese che era stato allievo dell’etologo Konrad Lorenz». 
I radiocollari che cosa dimostrano? 
«Che i lupi non scendono nelle città d’inverno. Sono dietro le nostre case in ogni stagione, solo che noi non li vediamo. Quando i giovani esemplari lasciano il branco, vanno in cerca di un territorio, di un partner e di un pasto. Che, come abbiamo dimostrato, trovano sui Navigli a Milano, sulla collina di Torino dove abitava Gianni Agnelli, nel quartiere di San Lorenzo a Firenze, nei centri storici di Mantova e Ferrara, nel Delta del Po, a Vejo, a Otranto, fino a Santa Maria di Leuca. Di recente alle porte di Verona, a San Giovanni Lupatoto, che guarda caso ha nello stemma comunale un lupo». 
Dal 1921 questa specie pareva estinta. 
«Non è così. Sull’Appennino c’è sempre stata. Solo che da qui si è propagata all’arco alpino. Risale a 30 anni fa l’apparizione della prima coppia di lupi sul Col di Tenda, nelle Alpi liguri». 
Quindi non sono stati reintrodotti dall’uomo, come si sente dire in giro? 
«La più grande idiozia che sia mai stata raccontata. Un lupo giovane arriva a percorrere 1.500 chilometri in un mese». 
Allora il Life Wolfalps Eu a che serve? 
«Unicamente a migliorare la coesistenza con l’uomo nei luoghi dove il lupo arriva da solo sulle proprie zampe. Un’arte antica che non occorre certo insegnare ai pastori abruzzesi, irpini e calabresi». 
Ma a quelli veneti sì. 
«Per difendere le greggi dai lupi serve una particolare zootecnia, fatta di 600 capi al massimo. In Abruzzo si parla di morra: vuol dire 300 pecore, un pastore e tre cani maremmani. Le perdite così si riducono al minimo. Quando il danno diventava intollerabile, d’inverno intervenivano i lupari, che abbattevano qualche esemplare di troppo». 
Invece oggi? 
«Siamo arrivati all’assurdo per cui in Francia, dove i lupi sono appena 600, si sono contate 7.511 predazioni annue, contro le 1.739 dell’Italia, che dopo i Carpazi è il territorio dove si stimano più esemplari. È il risultato della zootecnia moderna. Ma un gregge di 4.000 pecore non lo difendi neppure con 50 cani». 
La chiamano a spiegare queste cose? 
«Ho lavorato bene con la Regione Piemonte per dieci anni. Per il resto, un solo intervento in Valle d’Aosta e due conferenze nel Veneto, in Lessinia». 
Come si rileva la presenza dei lupi? 
«Con le fototrappole e la raccolta di impronte, ciuffi di pelo ed escrementi lungo i sentieri. Tra luglio e settembre anche con gli ululati: se io urlo, i piccoli, che sono fessacchiotti, mi rispondono». 
Il lupo ha un habitat che predilige? 
«No, è l’animale più adattabile e opportunista esistente sulla faccia della terra. Lo si trova ovunque, dal Polo Nord al deserto dell’Arabia Saudita, tranne che nelle foreste tropicali. Sono stato per 45 giorni a Ellesmere, la più settentrionale delle isole artiche canadesi, insieme con un branco di lupi bianchi, enormi, bellissimi. Non hanno paura dell’uomo, li seguivo a due metri di distanza. Lì ho capito pienamente la loro psicologia». 
E qual è? 
«Giocano, giocano, giocano sempre, benché siano immersi nella notte polare per sei mesi l’anno, a meno 50 gradi». 
È stato l’unico incontro ravvicinato? 
«Be’, no. Ne avuti molti altri nel Parco nazionale della Maiella e, di recente, sotto casa, a 30 metri: quattro lupi adulti con sei piccoli. Sono fuggiti subito». 
Il lupo scappa di fronte all’uomo? 
«Sempre. Non conosco un caso di aggressione in Italia e, all’estero, solo quello di Candice Berner, sbranata nel 2010 in un piccolo villaggio dell’Alaska». 
Come si spiega questa tragedia? 
«Faceva jogging e aveva le cuffie dell’iPod, non si è accorta dell’arrivo dei lupi. Correre significa fare da preda. Ma era la prima volta negli Usa dopo 50 anni». 
Però vicino a casa mia, a Camposilvano, nel 1655 un lupo sbranò una massaia che era ferma a sciacquare i panni in una pozza. C’è una croce di pietra vicino alla contrada Buse di Sotto a ricordarla. 
«A quel tempo era endemica la rabbia. Gli animali idrofobi attaccano sempre l’uomo, persino le donnole lo fanno. I saggi di due storici ricostruiscono dai registri parrocchiali tutte queste morti. Dal XV al XIX secolo i lupi hanno provocato in Italia 77 vittime, di cui cinque per contagio da rabbia. Nessun attacco è stato segnalato negli ultimi 100 anni». 
Quindi lei non ha paura dei lupi? 
«Solo per Ashi, l’ottavo cane della mia vita, un cucciolo di razza Münsterländer che potrebbe diventare una preda». 
Che fare, se ci s’imbatte in un lupo? 
«Stare fermi, zitti e godersi lo spettacolo, che purtroppo dura pochi secondi. Se proprio si è spaventati, basta alzare le braccia e il lupo si dilegua. Insomma, non è come l’incontro con l’orso, per il quale si raccomanda di indietreggiare lentamente e non gesticolare». 
Quanti cuccioli partorisce una lupa? 
«Da tre a dieci, una sola volta l’anno, ma non tutti sopravvivono». 
Si può evitare che prolifichi troppo? 
«Non serve. Un branco controlla da 80 a 500 chilometri quadrati, mediamente 300. Questo significa che l’Italia peninsulare è già satura. Il lupo trova territori ancora da colonizzare solo sulle Alpi». 
Vada a dirlo a pastori ed allevatori. 
«Cani e recinti elettrici bastano a difendere il bestiame. Ma la gente di montagna deve capire che non può abbandonare greggi e mandrie all’aperto di notte per scendere a valle dalle mogli. Comunque esistono gli indennizzi. Anni fa accertai che ogni pecora riceveva dall’Ue sussidi pari al 60 per cento del suo valore. Quindi, se veniva sbranata da un lupo, le Regioni avrebbero dovuto rimborsare solo il restante 40 cento. Ma questo i pastori omettevano sempre di dirlo». 
Arriveremo ad abbattere i lupi? 
«Posso ammettere che siano concesse deroghe localizzate. Ma solo dallo Stato. È una specie protetta. Ucciderli è reato». 
Qual è il peggior pericolo per il lupo? 
«L’ibridazione. Già 40 anni fa per ogni 2-4 lupi presenti su 100 chilometri quadrati vi erano 150-310 cani vaganti e 24-82 rinselvatichiti. Ho ricevuto un filmato terribile girato nella foresta del Tarvisio: mostra un intero branco di ibridi». 
Conobbi Mario Messi. Li ibridava di proposito con l’Ente tutela lupo italiano. 
«Una follia. Ho combattuto questo signore. Andai a un’audizione in Parlamento. Voleva una legge per ottenere soldi dallo Stato. Tentò di regalarmi uno dei suoi lupi bastardi. Gli risposi che da 10.000 anni all’uomo basta il cane». 
La ricerca a Montecristo l’ha poi fatta? 
«No. Ma quelle sono capracce qualsiasi, non corrono alcun pericolo». 
Un animalista non parla così. 
«Ma io non sono un animalista. Non metto al primo posto l’individuo. A me interessa che sopravvivano le specie». 
E quante sono? 
«In Italia 57.000. Nel mondo 1,7 milioni quelle descritte, ma si stima che arrivino a dieci volte tanto. E oggi siamo dentro la sesta estinzione di massa». 
Chi si salverà? 
«Dopo la scomparsa dell’uomo? La formica. E dopo la formica, il lupo».