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 2022  agosto 13 Sabato calendario

Biografia di Valerio Magrellii raccontata da lui stesso

È il poeta che nega se stesso e che si taglia le ali per volare meglio. Quello che potrebbe apparire un gesto autolesionistico serve a comprendere dove si posa la poesia di Valerio Magrelli. Basta leggerlo fuori dagli schemi: un condensato straordinario di vita eloquentemente quotidiana, come accade nel dirompente volumetto di versi: Exfanzia.
Saggista, traduttore, poeta, professore, Magrelli ha fatto della socievolezza un’arma a doppio taglio. Sugge tutto quello che vede e sente, dalle cene, dalla memoria, dalla lingua che gli scorre davanti come un film. E lo riproduce nei suoi versi.
Il potere della poesia sulla lingua è trasformare parole ovvie, perfino sgradevoli, o urtanti, in qualcosa di nuovo e imprevedibile. In un verso scrivi: «Che sorrisone faccio, nella foto!». «Sorrisone», invece di «sorriso». Come ti è venuto in mente?
«Modificare il linguaggio è molto difficile e non a caso Saussure lo paragona all’Oceano. “Sorrisone” effettivamente è audace come termine. Ma già nella metà degli anni settanta seguivo alcuni dei laboratori di Elio Pagliarani che si raccomandava di usare termini colloquiali e soprattutto di bandire ciò che Edoardo Sanguineti chiamava il “poetese”. Da qui la mia strenua battaglia contro gabbiani e tramonti».
Marinetti voleva uccidere il chiaro di luna. Poi giunse la neoavanguardia a dargli man forte. Ma tu non eri contro sta roba?
«Sono spesso stato in conflitto con la neoavanguardia, ma su certi punti non me ne sono mai distaccato.
Prova ne sia la serie di poesie sui gabinetti, alcune invettive, l’uso di un lessico sconcio oppure, viceversa,il ricorso a vocaboli alti e desueti come “sigiziale”, “comburere”, “tiptologia”. Vedo il linguaggio come una tastiera — tieni conto che sono un pianista fallito — e ne vorrei impiegare tutto lo spettro acustico, dai bassi fino agli acuti estremi».
Le tue poesie non hanno nulla di lirico e molto di quotidiano. Com’è la tua esistenza casalinga: ti alzi, vai in bagno, ti aggiri, pensi, programmi, mangi, leggi, stai al cellulare, al computer ecc. Ma dov’è davvero la tua mente?
«Premesso che sono un privilegiato, un docente patito dell’insegnamento, e che la mia materia mi affascina, la realtà percepita, purtroppo, è completamente diversa. Sin dalla nascita, il mio super-io mi ha spinto ad accettare lavori esorbitanti rispetto alle mie forze.
L’immagine che ho di me stesso è quella di uno schiavo legato al computer. Dieci ore al giorno se ne vanno così, senza contare le molestie subite da parte della burocrazia, che peraltro ho ampiamente maledetto nel pamphlet Il sopruso ».
Sei il contrario del poeta notturno. Ma cos’è la notte per te? Ansia, sonno, attesa, letture coatte, dialoghi immaginari. E come vivi il risveglio?
«Grazie ai sonniferi, vengo cancellato. Pura meraviglia. Nirvana. Nulla assoluto. Invece il risveglio mi fa sempre venire in mente Sisifo».
Le tue letture giovanili che parte di te hanno rivelato?
«Francamente non me lo sono mai chiesto. Non ho mai pensato al mio rapporto con gli autori. Sono sempre andato avanti come un mulo, con i paraocchi, convinto solo della necessità di macinare libri e conoscenze, accumulando concerti e musei, e dischi, dischi, dischi, per attrezzare l’arsenale del sapere. Poi,quando vado a rimettere negli scaffali della mia biblioteca un libro appena finito, scopro che ce n’è già una copia identica, e tutta appuntata. È abbastanza desolante. Ma non vorrei esagerare: la lettura giovanile di Montaigne, Austen, Proust e Omero sono state ossigeno puro».
Chi sono i poeti che leggi più volentieri, quelli ai quali ricorri?
«Io leggo poca poesia, molta narrativa e un bel po’ di saggistica. Ad ogni modo i miei benefici “traumi in versi” sono stati causati da tre autori: un francese, Francis Ponge (con la sua poesia delle cose), un belga, Henri Michaux (capace anche di prose e disegni supremi) e infine un russo, Osip Mandel’stam (prose, poesie, saggi: soltanto grazie a lui ho potuto avvicinarmi a Dante). Ma dovrei aggiungere Emily Dickinson, Marianne Moore, Marina Cvetaeva, l’elenco è davvero lungo se non lunghissimo».
Dove sei nato?
«A Roma, dove ho sempre vissuto tranne il primo anno di università a Parigi. Come nella canzone di Guccini, mio padre, nella sua famiglia, era il primo ad aver studiato. Così mia madre. Lui ingegnere, lei pediatra.
Lui più curioso e vivace, lei più strana. Durante la guerra si mette a studiare russo, e viene pedinata dalla polizia. Poi diventa omeopata — il biglietto buono alla lotteria. E invece no, lascia tutto e torna a aiutare suo padre commerciante. Per concludere, mi iscrive alle scuole Montessori (che da allora ho detestato con tutte le mie forze). Mia sorella ha condiviso questo andirivieni, ma è rimasta fedele all’omeopatia».
Ho letto da qualche parte di un tuo giovanile fanatismo religioso.
«Sono stato un chierichetto militante, per la precisione. Imbevuto di fede fino ai 13 anni. Ricordo ancora un amico più grande, nel coro, che mi sussurra inorridito: “Ma perché canti così forte?” Poi, la crisi. Ho rinnegato l’omeopatia, ma non riesco a rompere il vincolo con la fede. Troppo forte, come dimostra l’insopprimibile bisogno di bestemmiare. Lo scrivo in una poesia: è la prova di un amore indissolubile, benché rovesciato. Per me, dio esisterà sempre, sia pure in forma gnostica, come demiurgo malvagio, “Dio di Casal di Principe /il Re che atterra il debole per premiare l’ingiusto”. È una forma di imprinting a cui non mi è possibile sottrarmi».
In “Exfanzia” le varie fasi della vita fanno un po’ da spartitraffico. Ma alla fine ti dedichi molto alla vecchiaia, quasi fosse il grande errore della vita.
«L’idea della vecchiaia come un errore della vita mi pare splendida, se non fosse che, nel mio caso, lo erano anche le età precedenti. Vorrei evitare l’autoanalisi, ma diciamo che il mio sentire è vicino al “vantablack”, il colore di cui l’artista britannico Anish Kapoor ha acquistato il brevetto e che viene considerato “il nero più nero del mondo”. Proprio per questo, ricorro spesso a potenti iniezioni di ironia, l’unico vero analgesico a mia conoscenza. Comunque, se dovessi immaginare il passaggio da un’età all’altra, penserei a un susseguirsi di smottamenti. L’immaginario tellurico mi è da sempre conforme, tanto che un mio libro in prosa si intitolava Geologia di un padre ».
Nei tuoi versi fai spesso uso di immagini, metafore, accostamenti.
«Preferirei parlare di analogie, il cui scopo è cercare di afferrare l’infinito spettacolo del mondo. Io ho un pensiero analogico nel senso letterale del termine: cerco somiglianze per provare a spiegare l’inspiegabile. Per questo la precedente raccolta di versi si chiamava Le cavie. Ogni singola poesia è la cavia di un esperimento, una macchina da spiegazioni. In tal senso arriverei a dire che dio stessonon è altro che una poesia, composta dall’uomo nel disperato e vano tentativo di spiegare l’inspiegabile, ossia il Male».
Dal male si esce alla fine solo con la propria morte. Ti chiedi se sia possibile uscire vivi dalla vecchiaia.
Cosa ti turba di questa stagione della vita?
«Io teorizzo da sempre l’eutanasia. A mio parere rappresenta la “buona morte” per eccellenza. Cosa la distingue dal suicidio? Il dolore. E io, sfrenato amante dell’anestesia, ho ribrezzo per la glorificazione del dolore. Ragione vorrebbe che ognuno fosse libero di scegliere. Invece la nostra teocrazia ce lo impedisce.
Per tornare alla vecchiaia, tutto dipende dalla presenza e dalla qualità del dolore. Aggiungo che, con le mie poesie, ho cercato di raccontare l’avanzare dell’età in un’epoca particolare come la nostra, dove pandemia e crisi climatica sembrano aggiungere, alla nostra vecchiaia, la vecchiaia del mondo circostante».
I tuoi studi si sono svolti tra filosofia e letteratura (francese in particolare), su cosa e con chi ti sei laureato?
«Dopo aver studiato cinema, musica, letteratura francese con Giovanni Macchia e Luigi De Nardis, mi sono laureato in Storia della Filosofia con TullioGregory. La tesi era dedicata a Joseph Joubert, allievo di Diderot e amico di Chateaubriand. Lo scelsi perché era ed è uno scrittore praticamente sconosciuto, ma amato da Benjamin, Blanchot, Canetti e molti altri.
Scoprii che i suoi quaderni erano stati tradotti negli Usa da un omonimo del romanziere Paul Auster.
Quando incontrai quest’ultimo, accennai al traduttore di Joubert, e lui mi interruppe esclamando: “Ma niente affatto! Sono proprio io!”».
Ci sono scrittori intoccabili?
«Come alla borsa, i titoli possono scendere o salire.
Tuttavia, credo che ce ne siano alcuni immuni dal subire variazioni sostanziali. È questo il canone, sono questi i classici. Per il novecento francese, mi affido al giudizio di Claude Lévi-Strauss: “Proust e Céline: ecco la mia inesauribile felicità di lettore”».
Hai curato il Meridiano di Valéry, gli hai dedicato un intero libro. C’è dentro la fotografia, il guardare, lo specchio, l’immagine. C’è la morte. Che posto occupa questa articolata esperienza del mondo?
«La poesia di Valéry corrisponde appunto a uno di quei titoli che sono andati deprezzandosi col tempo.
In compenso, grazie all’edizione critica dei Quaderni, è ormai venuta alla luce la sua grandezza di pensatore inprosa. Parla di politica, tecnologia, eros, matematica, genetica, letteratura, praticamente di tutto, con una capacità aforistica degna di Karl Kraus. Io mi concentrai su un dettaglio apparentemente secondario come quello dello sguardo, e mi si aprì un filone di ricerche meraviglioso, una vera grotta magica».
Definisci la poesia (da pus) infiammazione del linguaggio. Hai la tendenza a sdrammatizzare e ironizzare. Ma che ne è di tutti coloro che pensano alla poesia come alla sola forma di verità accettabile?
«La migliore definizione che abbia mai incontrato (peraltro nata per indicare la cosiddetta patafisica) è di Alfred Jarry: “Scienza delle eccezioni”. Questo per dire che la poesia può essere l’abisso di Celan o la capriola di Palazzeschi, il funereo Trakl o l’irridente Gozzano. Sono per la bibliodiversità e detesto le monoculture. Ben venga il pus della verità e ben venga la verità del pus».
La verità tu dici non dovrebbe mai venire alla luce.
Esattamente il contrario di quel che pensava il vecchio Heidegger, la verità come radura.
«Ho studiato sei anni il tedesco, con una borsa di studio di due mesi a Brema, solo per leggere Heidegger e Wittgenstein. Naturalmente, ora non spiccico una parola. Ma la radura, la “Lichtung” come chiarore, è indimenticabile. Solo che, come dicevo, per me ogni poesia è una cavia, ossia corrisponde a un esperimento linguistico. Vale in se stessa, come organismo autonomo, senza che si possa applicare ad altro. Infattimi è capitato di scrivere due poesie che si contraddicono perfettamente. A chi dare ragione? La poesia produce mondi alternativi che a volte giungono a escludersi tra di loro».
Oltre a contraddirsi cos’è per un poeta perdersi?
Tu dici che è tutta la vita che prendi la strada sbagliata. Ma c’è da qualche parte una retta via?
«Non credo esista una retta via, ma c’è la possibilità che una persona sia retta. Quando incontro il Nemico (sotto forma di impiegato, ladro, malfattore) gli rivolgo sempre il medesimo augurio: “Che i tuoi figli non possano mai incontrare qualcuno come me, ma solo gente che ti assomigli”».
Hai messo la tua vita e i tuoi versi Sotto la protezione di Pollicino. Come fai a ritrovare la strada?
«Nel corso degli anni, questa figura si è imposta prepotentemente nella mia scrittura (qui l’omaggio a Zanzotto è doveroso). Gli ho dedicato diverse poesie.
Pollicino abbandonato dai genitori che si ingegna per sopravvivere in un mondo ostile, mi sembra un autoritratto abbastanza accettabile».