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 2022  agosto 13 Sabato calendario

Salman Rushdie, storia di una fatwa

«L’ultima estate innocente» ha definito Salman Rushdie quella del 1988, una vita fa. Prima che, a settembre di quello stesso anno, il suo quarto romanzo, I versi satanici (pubblicato in Italia da Mondadori), ispirato al profeta Maometto, arrivasse nelle librerie suscitando l’indignazione rabbiosa di una parte dei lettori musulmani, che lo bollò come «una bestemmia contro l’islam, il Profeta e il Corano», e la fatwa dell’ayatollah Rudollah Khomeini, allora leader supremo dell’Iran, che decretò la condanna a morte dello scrittore. Rushdie apprese la parola fatwa dalla telefonata di un giornalista della Bbc : lanciata il giorno di San Valentino del 1989, la condanna venne ribadita da Ali Khamenei nel 2005, rinnovata nel 2017 e nel 2019 via Twitter.
Ex pubblicitario, brillante, polemico, la battuta pungente sempre pronta, lo scrittore indiano naturalizzato britannico (è nato a Bombay/Mumbai nel 1947 da una famiglia di fede islamica) non ha mai sottovalutato le minacce, che portarono, tra l’altro, all’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Gran Bretagna e Iran. Nelle interviste ha spesso raccontato che esistono ancora frange di fondamentalisti che ogni anno, a San Valentino, gli mandano un biglietto per dirgli che non hanno dimenticato. La condanna a morte ha trasformato Rushdie in una figura unica nel mondo culturale, facendo spesso dimenticare che già prima dei Versi satanici aveva scritto altri tre libri, tra i quali I figli della mezzanotte, romanzo sulla storia della sua generazione, ragazzini con poteri magici nati il 15 agosto 1947, quando l’India e il Pakistan cacciarono gli inglesi e, con la «Partition», conquistarono l’indipendenza. Il romanzo gli è valso il Booker Prize e ancora oggi resta forse il suo migliore.
Per 13 anni, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, Rushdie ha vissuto in Gran Bretagna sotto protezione e con una falsa identità. Joseph Anton, il nome fittizio che aveva scelto in onore di due scrittori molto amati, Joseph Conrad e Anton Cechov, diventerà il titolo di uno straordinario memoir in terza persona uscito nel 2012 in cui intreccia la sua vicenda di braccato con aneddoti, retroscena e riflessioni sulla libertà di espressione, sulla creatività, sull’officina della scrittura, su mogli, compagne, fidanzate che gli sono state accanto. È la storia di «un uomo senza eserciti costretto a combattere continuamente su più fronti: il fronte privato della sua vita segreta, fatta di appostamenti, nascondigli, paura degli idraulici e degli operai, affannose ricerche di case e rifugi, orribili parrucche; e il fronte editoriale, dove, nonostante tutto il suo lavoro, non poteva dare nulla per scontato, nemmeno la stessa pubblicazione».
Scia di sangue
Il suo traduttore giapponese è stato ucciso, quello italiano aggredito a Milano
Non poteva essere diversamente, d’altronde, considerato che la fatwa di cui è stato vittima, e che lo ha costretto a vivere sotto scorta, si è estesa a traduttori ed editori: il giapponese Hitoshi Igarashi, ucciso nel suo ufficio nel 1991; l’italiano Ettore Capriolo, aggredito e accoltellato nell’abitazione milanese lo stesso anno da un uomo che aveva finto di voler parlare di una traduzione per conto dell’ambasciata iraniana; il norvegese William Nygaard che, dopo averlo pubblicato con la sua casa editrice, venne ferito da tre colpi di arma da fuoco davanti a casa nel 1993.
Come narratore Rushdie ha frequentato spesso una forma di realismo magico, a volte di fantastico, messo al servizio di un’idea della letteratura che deve dire qualcosa sul presente. In una conversazione con l’amico Ian McEwan per la Lettura, paragonava lo scrittore al matador secondo Hemingway: il migliore è quello che si avvicina di più al toro. «Se il toro è lontano due metri non è così eccitante, non ci vogliono particolari qualità. Ma se il toro sta per incornarti, ogni movimento deve essere perfetto, altrimenti finisci male. Ho sempre pensato in questo modo all’attualità: cerco di catturarla, di avvicinarmi al toro. È pericoloso ma entusiasmante». Lo ha fatto, con alterne fortune, nei libri successivi, schiacciati inevitabilmente dal peso dei Versi e anche nel più recente, Quichotte (Mondadori 2020), romanzo picaresco in cui frulla insieme la situazione politica nell’era Trump, il mondo mediatico, la strage di oppioidi che da anni sconvolge l’America scaraventando il cavaliere «dalla triste figura» creato da Miguel de Cervantes in un mondo survoltato che annulla la differenza tra realtà e reality.
A febbraio 2023 uscirà in inglese il nuovo romanzo, Victor City, un fantasy ambientato in India con al centro un’eroina che lotta contro un mondo patriarcale, ma da qualche mese Rushdie ha aperto sulla piattaforma Substack una newsletter intitolata «Salman’s Sea of Stories» (che evoca un suo libro per bambini, Harun e il mare delle storie), dove pubblica «ogni tipo di storia: storie che mi hanno toccato, o commosso, o impressionato, annoiato o perfino rivoltato e che ho trovato su libri, film, tv, teatri, oppure storie create da me». Forse ci sarà anche quella che sta vivendo.