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 2022  agosto 03 Mercoledì calendario

Come è finita (male) con Mani Pulite

A novembre compirò 79 anni. Sono nato dunque alla fine del 1943 e ho attraversato tutta la storia dell’Italia repubblicana.
I primi anni del Dopoguerra, fino al boom economico compreso, sono stati, com’è ovvio, i migliori. Uscivamo da una crisi materiale e morale devastante, dopo aver perso una guerra. Ma “krìsis” vuol dire anche opportunità e gli italiani, cui non è mai mancato lo spirito di iniziativa, la colsero. L’imprenditoria italiana si mise a volare, grazie anche agli aiuti americani. Però non fu solo lo slancio della “ricostruzione” a rendere “belli” gli anni 50. Essere rimasti vivi dopo i bombardamenti Alleati e i rastrellamenti tedeschi bastava a renderci felici. La mia generazione, diciamo dei ragazzi degli anni 60, ha avuto un rapporto molto diverso con gli americani di quella che ci aveva preceduto. Per i nostri fratelli di 10 anni più vecchi, gli americani erano un mito non tanto perché li avessero “liberati”, ma perché i soldati Usa davano loro caramelle e cioccolato e, a volte, delle ambitissime Am-lire che in quei giorni convulsi avevano sostituito la valuta nazionale. A noi invece gli americani erano indifferenti, non li amavamo ma nemmeno li odiavamo. Eravamo intrisi, almeno noi giovani borghesi, dell’esistenzialismo francese, di Camus, di Sartre, di Merleau-Ponty. Anche se l’esistenzialismo pendeva verso il comunismo sovietico, prima della clamorosa denuncia di Camus dei lager che peraltro era stata preceduta, ma inascoltata da Gide negli anni 30. Erano i famosi “compagni di strada”. L’esistenzialismo avrà un revival a metà degli anni 60 col movimento hippy, con la libertà personale (i “capelloni”), sessuale e il femminismo non portato ancora agli estremismi del metoo. Eravamo poveri negli anni 50, ma è nella povertà che si è solidali. I ricchi possono fare beneficenza, ma questa non è solidarietà è solo per salvarsi la coscienza.
Poi all’inizio degli anni 60 arrivò il “boom economico”. Lo affrontammo con una certa naïveté priva di volgarità. Era bello, dopo aver stretto per anni la cinghia, potersi permettere certi beni che avevamo considerato un lusso, come l’automobile. La Fiat aveva fatto il proprio lavoro e l’Italia cominciava a essere un paese moderno almeno dal punto di vista autostradale (“da casello a casello”, “c’ho giù la Giulia”: chi avendo la mia età non ricorda queste frasi o La voglia matta con un Ugo Tognazzi quarantenne, abbonato naturalmente al Touring Club, che perde la testa per l’implume Catherine Spaak?). Quest’incanto si chiuse nel 1967. Quando i figli di una borghesia ipocrita proclamarono di voler rovesciare la borghesia, una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Andavano in giro urlando slogan raccapriccianti: “Uccidere un fascista non è un reato”. Qualche ragazzo “fascista”, o presunto tale, rimase su una sedia a rotelle. Qualcun altro ci lasciò la vita. La Dc lasciò fare sperando, come sempre, che il fenomeno si sarebbe esaurito da solo. Da noi invece, a differenza che in Francia o in Germania, è durato 10 anni, facendo il maggior numero di danni possibile (gli assassinii di Tobagi e Casalegno). La Dc aveva capito che quei giovani pseudorivoluzionari erano politicamente innocui. L’aspirazione vera dei loro leader era conquistare le prime pagine del Corriere e possibilmente la direzione. Come poi è puntualmente avvenuto. I soli rispettabili, a parer mio, di quella generazione furono i primi “brigatisti rossi” (Curcio & C.) che credevano a quello che facevano e mettevano a rischio la pelle altrui a prezzo però anche della propria. Ma cavalcavano un’ideologia morente, il marxismo-leninismo, che si spense pochi anni dopo col collasso dell’Urss.
Seguirono gli anni 80. Gli anni della “Milano da bere”. A parte il fatto che se la bevevano solo i socialisti, è in quegli anni che ha inizio la corruzione sistematica. Non c’era appalto senza tangente politica. I più arroganti in questa spoliazione, materiale e morale, della società furono i socialisti. Il socialismo è la traduzione laica del pensiero cristiano chinato sugli umiliati e offesi. Ed è ben vero che negli anni 80 costoro non potevano più essere identificati con la classe operaia che stava disfacendosi a favore del terziario e della finanza, ma non potevano nemmeno essere identificati con i visagisti, i coiffeur, gli stilisti, le dame di corte (“i nani e ballerine” del compagno Rino Formica). La corruzione riguardava tutti i partiti, ma i socialisti, a differenza della più prudente Dc e del più controllato Pci, la agirono con particolare violenza e volgarità arrivando a “torre le donne altrui” per piazzarle in questo o quel programma tv. Fu anche per questo che quando arrivò Mani pulite, nei primi anni 90, i socialisti furono il principale bersaglio di una collera popolare che arrivò ai limiti, sempre inaccettabili, del linciaggio.
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Mani pulite veniva da lontano. Era una delle conseguenze del collasso dell’Urss del 1989. Scomparso per il momento l’“orso russo”, l’incubo di sempre, come vediamo ancor oggi, del mondo occidentale, non era più necessario appoggiare quello che in Italia era il suo contrapposto storico, la Dc. Il “turatevi il naso” di Montanelli non valeva più. Quei voti si dispersero in varie direzioni, ma si concentrarono soprattutto sulla Lega di Umberto Bossi, un movimento anti-partitocratico che sulle prime era stato preso poco sul serio, ma adesso al Nord prendeva il 40% dei voti. Dopo una quindicina d’anni di “compromesso storico” (il Pci associato al potere), nasceva in Italia una vera forza di opposizione. Ciò liberò le mani ai magistrati che prima, se osavano indagare sulla corruzione della classe dirigente, venivano spediti a un semiconfino, cioè in Procure marginali. E ci fu la sequela di arresti di politici e imprenditori i quali, gli imprenditori intendo, erano spesso i primi ad autodenunciarsi perché il taglieggiamento pesava, oltre che sui cittadini, anche su di loro. È proprio negli anni precedenti Mani pulite che, in virtù del voto di scambio, abbiamo accumulato l’enorme debito pubblico che ancor oggi pesa e complica i nostri rapporti con l’Ue.
Mani pulite è stato un possibile momento di svolta. Dopo anni di impunità anche la classe dirigente veniva richiamata al rispetto di quelle leggi che tutti i cittadini sono chiamati a osservare. Mani pulite non fu solo una rivolta popolare contro il prepotere dei partiti, ebbe anche un’origine economica perché il Paese non poteva più sopportare il peso di quel finanziamento illecito i cui rivoli, anzi fiumi finivano spesso nelle tasche dei corruttori. Sulle prime la stampa appoggiò con entusiasmo finanche sospetto l’opera dei magistrati, soprattutto milanesi, perché aveva la coda di paglia essendo stata compartecipe dell’ancien régime lucrandone i vantaggi. In un famoso discorso alla Camera del 21 dicembre 1994, sfiduciando e rovesciando il governo Berlusconi con cui si era provvisoriamente alleato, Bossi concluse: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Si illudeva. A cadere sarebbe stato lui con tutto l’impianto di Mani pulite.
Sintetizzando molto, i protagonisti di Mani pulite furono quattro: Antonio Di Pietro, punta di lancia di quelle inchieste; Bossi; Vittorio Feltri, direttore de L’Indipendente che, in modo spesso sgangherato e violento, appoggiò le indagini; e Gianfranco Funari che rappresentava in tv la voce popolare. La reazione a questo “sgarro” alla partitocrazia non si fece attendere. Bossi fu inglobato, Feltri comprato, Di Pietro infamato in tutti i modi, Funari emarginato. Per sapere quello che è successo dopo non è necessario avere 79 anni. Delegittimata la magistratura, la corruzione della classe dirigente è scesa giù per li rami coinvolgendo anche i cittadini e la stessa magistratura, all’interno della quale, salvo lodevoli e isolate eccezioni, si svolgono lotte di potere non diverse da quelle dei partiti.
Il 25 settembre ci saranno le elezioni. Al nuovo presidente del Consiglio, probabilmente Giorgia Meloni, spetterà il difficile compito di ridare agli italiani una fiducia nelle Istituzioni che, come dimostra la montante astensione, hanno da tempo abbondantemente perduto.