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 2022  agosto 03 Mercoledì calendario

Chi prenderà il potere in Al Qaeda?

Al-Qaeda non è morta nel raid americano che a Kabul, in quell’Afghanistan dove tutto era cominciato, ha eliminato il suo ultimo leader, il grigio medico egiziano Ayman al-Zawahiri. E’ morta forse nel febbraio del 2019, quando a cadere sotto i missili dei droni Usa era stato Hamza bin Laden, l’erede designato del principe del Terrore, suo padre Osama. O anche prima, nel blitz di Abbottabad del maggio 2011, dove i Navy Seals avevano giustiziato senza troppi fronzoli il fondatore della "Base" e vendicato le Torri Gemelli. Chiunque prenda in mano quel che resta dell’organizzazione, con molta probabilità il genero di Al-Zawahiri, il marocchino Abdal-Rahman al-Maghrebi, oppure il veterano Saif al-Adel, ha il compito di rilanciare un progetto senza prospettive. Velleitario da subito, fuori dalla storia adesso, di fronte alla nuova guerra fredda fra Usa, Russia e Cina.
Il sogno del terrorista saudita era nato con il crollo dell’Unione sovietica, che lui stesso aveva contribuito ad accelerare nella guerriglia contro l’armata rossa in Afghanistan negli anni Ottanta. Sconfiggere le grandi potenze occidentali, a cominciare dall’America, e ricostruire il grande Califfato mondiale, riportare l’Islam alla guida del mondo. Se Mosca era caduta, poteva cadere anche Washington. Il progetto aveva le sue basi ideologiche e politiche nei pensatori jihadisti degli anni Trenta, in Egitto. Hassan al-Banna, Sayyid al-Qutub. Davanti ai primi scricchiolii del potere coloniale si elaborava l’idea del ritorno all’islam delle origini, dei salaf, i compagni del Profeta, per riconquistare l’indipendenza e federare tutti i territori musulmani. «La risposta è nel Corano», era il programma.
Un programma che ha avuto subito due anime: politica e militare. Conquistare le masse, eliminare i governi collaborazionisti, kuffar, miscredenti. Le idee salafite erano germogliate nella penisola arabica due secoli prima. Per questo Bin Laden incarnava alla perfezione il progetto. Nobile saudita, un vero "salaf", con al fianco un metodico organizzatore egiziano, Al-Zawahiri appunto. Dall’Afghanistan che aveva visto il trionfo sugli infedeli comunisti era partito l’attacco dell’11 settembre, il culmine della sfida all’Occidente. "L’avanguardia rivoluzionaria", il ristretto nucleo di combattenti, aveva trovato il suo acquario nell’Emirato espressione dell’islam politico, uno Stato retto e regolato dalla sharia. Modello perfetto, ma incapace di resistere alla potenza di fuoco americana.
L’Emirato è stato prima spazzato via nel novembre 2001. Poi è risorto con la guerriglia e la zona grigia jihadista al confine con il Pakistan, la complicità silente di Islamabad. Ha riconquistato in trionfo il potere lo scorso 15 agosto, con l’entrata in Kabul dei redivivi talebani. Il patto con gli americani, ansiosi di andar via dopo aver sacrificato 2400 uomini e tremila miliardi di dollari, prevedeva però la cooperazione nella lotta contro l’Isis e Al-Qaeda. Se il mullah Omar non aveva mai voluto tradire il compagno e amico Bin Salman, il nuovo emiro Akhunzada alla fine pare abbia dovuto cedere, e "coordinarsi" con la Cia nel raid su Al-Zawahiri.
Smentiranno tutti e due. Ma è evidente che gli spazi del salafismo militare si riducono sempre più, e vengono spinti alla periferia fra gli Stati falliti del Corno d’Africa, come la Somalia, o nel Sahel. Il salafismo quietista domina il cuore del mondo islamico. Vuole la sharia ma non contesta il potere, per quanto autocratico o repressivo. Se 60 mila fratelli musulmani marciscono nelle galere di Al-Sisi, il raiss egiziano ha l’appoggio dei partiti salafiti "moderati". Le monarchie petrolifere coniugano sharia, modernità e integrazione nell’economia globalizzata. Fra enormi scossoni, lo stesso fa il Pakistan. La Turchia presto potrebbe presto assomigliarli.
Ora la shura di Al-Qaeda, si riunirà per trovare il successore, nelle valli fra Afghanistan e Pakistan. La rosa dei favoriti è ristretta. Oltre al genero di Al-Zawahiri, conosciuto con il nome di battaglia di Abdal-Rahman al-Maghrebi o come Muhammad Abbatay, ci sono l’ex colonnello egiziano Saif al-Adel, 62 anni, mago degli esplosivi, e uno degli organizzatori degli attacchi alle ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998. O ancora Abou Obeïda Youssef Al-Annabi, nuovo capo dell’Aqmi, l’Al-Qaeda nel Maghreb islamico, "emiro del Nord Africa", astro nascente e alla guida della più dinamica delle branche dell’organizzazione. Ma alla fine non è così importante. Già all’inizio degli anni Duemila l’analista della Cia Marc Sageman aveva parlato di Leaderless Jihad. Un arcipelago frammentato che può sempre innescare qualche lupo solitario nel cuore dell’Europa. Questo non può essere escluso. Ma che la "Base" torni a far tremare i pilastri dell’Occidente è molto difficile da immaginare.