il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2022
Bobbio, fascista pentito
Un peccato di gioventù, ossia una “stentorea dichiarazione di fede fascista” a 25 anni, è alla base del giudizio drastico che Norberto Bobbio espresse negli anni 70 sulla “inesistenza di una cultura fascista”? Tutto ebbe origine da una lettera inviata a Mussolini nel 1935, venuta alla luce solo nel 1992 su Panorama. Ora lo storico Giovanni De Luna, nell’introduzione al saggio di Bobbio Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920- 1950), riedito da Aragno, rilegge e cerca d’interpretare ciò che il filosofo sostenne nel ’77 nel libro, ma che aveva accennato nel ’72.
Bobbio disse che “se per cultura si intende il prodotto delle opere dell’ingegno e dell’arte che si perpetua e si arricchisce nel tempo, una vera e propria cultura fascista non c’è mai stata”, anche se “ci furono uomini di cultura fascista”. Un giudizio “tanto definitivo quanto opinabile”, osserva De Luna, “anche agli occhi di chi – come me – di Bobbio ammira incondizionatamente le posizioni”. Perché allora il filosofo assunse una tesi “tanto controversa”? La cultura del fascismo, come è evidente agli storici, non fu “inesistente”; anzi, ebbe i suoi esponenti di primo piano, a cominciare da Giovanni Gentile, anche se durò poco come “terza via” fra capitalismo e comunismo. Bobbio, però, lo negò, forse per coerenza con quella lettera del ’35: l’aveva inviata in luglio, dopo aver ricevuto una “ammonizione” dal regime con l’accusa di “attività antifascista”, che gli intimava di recarsi in prefettura a Torino per “presentare le sue discolpe”. Fu allora che Bobbio scrisse al duce dichiarando “in perfetta buona fede che l’accusa non è soltanto nuova e inaspettata ma anche ingiustificata… Mi addolora profondamente e offende intimamente la mia coscienza fascista, di cui può costituire valida testimonianza l’opinione delle persone che mi hanno conosciuto e mi frequentano: gli amici del Guf e della Federazione”. Sostenere, 40 anni dopo, l’inesistenza di una cultura fascista, dice De Luna, può anche sembrare un “mantello assolutorio” sulle “compromissioni di moltissimi intellettuali” col regime, che dopo l’8 settembre ’43 cambiarono bandiera. Ma non è questo il caso del filosofo: forse fu “l’ansia di rimuovere quel gesto che non si era mai perdonato ad aver influito sull’enfasi posta nella demolizione della cultura fascista e sul suo dare rilievo a personaggi della galassia antifascista scevri da ogni compromesso”, come Gobetti e Ginzburg.