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 2022  luglio 28 Giovedì calendario

Intervista a Ilaria Borletti Buitoni

La fortuna aveva sposato la vita, nella dinastia di cui Ilaria Borletti Buitoni è l’ultima erede. Poi, però, divorziò. Il nonno Senatore, di nome e di fatto (fu in Parlamento per tre legislature, dal 1929 al 1939), scoprì Arnoldo Mondadori, gli fornì i primi capitali e divenne presidente della casa editrice; portò al successo La Rinascente, Upim, Filature e tessiture riunite, Filatura lombarda, Officine Fratelli Borletti (spolette per proiettili, orologi e tachimetri marchiati Veglia, macchine per cucire «Borletti punti perfetti»); schierò Il Secolo contro il Corriere della Sera per conto del Duce e favorì la cacciata del direttore Luigi Albertini; fu presidente dell’Inter. Ma a 59 anni era già morto. Il padre Romualdo, detto Micio, ne aveva 56 quando nel 1967 perse la vita cadendo da cavallo. Senatore jr, che lo aveva sostituito alla presidenza della Rinascente, restò folgorato nella vasca da bagno suonando il campanello elettrico per chiamare la servitù. Il fratellastro Luca, 29 anni, nel 1972 si sfracellò sugli scogli di una villa ad Acapulco dopo un volo di 33 metri: «Incidente o delitto, non s’è mai capito».
Forse l’ex deputata ed ex sottosegretaria Borletti Buitoni («mi chiami Ilaria, non onorevole, i titoli piacevano solo al nonno, che si fece nominare conte di Arosio per avere uno stemma degno di Carlo V») è sfuggita al sortilegio che incombe sul casato perché ha sempre lavorato in proprio, mentre i cugini amministravano i restanti gioielli di famiglia: Standa, Printemps, Christofle, Grandi Stazioni. Di certo c’è che sua madre Bianca Guido, salentina, sposata da Romualdo dopo le prime nozze con Luisa Tosi, acciaierie, «era molto superstiziosa».
Molto quanto?
«Le dico solo questo: ritardò la mia nascita, stando immobile a letto, per impedire che venissi alla luce sotto il segno dei Pesci. Resistette fino al 22 marzo affinché fossi Ariete, com’era lei. Roba da mandarmi in analisi per 30 anni. Avevo gli occhi neri, i capelli neri, ero furente. Mi è rimasta addosso l’impazienza».
Anche un’imponente chioma.
«Maurizio Crozza mi prendeva in giro perché ne è geloso. L’hanno paragonata a quella di Moira Orfei. Semmai assomiglio a Galla Placidia, figlia di Teodosio I».
Perdoni la scortesia: vive di rendita?
«No, perché Enrico Cuccia portò La Rinascente nell’orbita di Gianni Agnelli quando io ero minorenne. E pensare che non sarebbe risorta dalle ceneri dell’incendio, con quel nome scelto da Gabriele D’Annunzio, se Senatore non avesse ordinato a mia nonna Anna Dell’Acqua di presentarsi alla Scala con tutti i gioielli che aveva, in modo da convincere le banche ad allentare i cordoni della borsa».
Oggi va alla Rinascente, qualche volta?
«Non faccio alcun tipo di shopping».
Le resta l’eredità di Franco Buitoni.
«L’uomo della mia vita, dopo essermi divisa in amicizia da Giovanni Cicogna, famiglia dei dogi. È mancato cinque anni fa. Un intellettuale profondo, cercava di capire dove fosse la verità. Al primo incontro si paragonò a Pëtr Bezuchov, l’alter ego di Lev Tolstoj, e dentro di me ringraziai mia madre, che a 16 anni mi fece leggere Guerra e pace. Ci sposammo in segreto in una chiesetta vicino a Varese».
La Buitoni andò a Carlo De Benedetti.
«La Buitoni si dissolse: troppi in famiglia. L’Ingegnere stimava mio marito».
Quindi oggi di che campa?
«Del mio lavoro. A 20 anni fondai nel Comasco un deposito di parafarmaci con Marco Rocca, un fratello più che un socio. Nel 1991 morì con altri 11 sotto la valanga del Pavillon, sul monte Bianco».
Il destino sa colpire anche di striscio.
«Mia madre mi trascinò da Cuccia in Mediobanca, un luogo buio, sembrava di stare in chiesa: “Mia figlia è matta, vuole aprirsi una ditta, dille qualcosa”. Lui mi squadrò per alcuni minuti. Poi esalò: “I soldi è più facile perderli che farli”».
Donna assennata, sua madre.
«Veniva da una famiglia di accademici, non frequentava le sciùre milanesi. Aprì il Centro culturale Durini e lo affidò a Gio Ponti. Invitava a cena Eugène Ionesco e suonava il pianoforte a quattro mani con Arturo Benedetti Michelangeli».
Però Cuccia non aveva tutti i torti.
«In quel caso sì, perché in seguito Marco e io cedemmo la società, guadagnandoci dieci volte tanto. E lo stesso accadde quando a Londra divenni partner di Loot, giornale di annunci gratuiti fondato nel 1984 da David Landau, brillante uomo d’affari. Lo vendemmo a Vivendi».
A Londra c’è il Borletti Buitoni trust.
«Per favorire il talento musicale. Ero stufa che parenti e amici venissero a raccomandarmi giovani violinisti di belle speranze. Una commissione di cui non faccio parte ha già selezionato 140 fuoriclasse, come il Jerusalem Quartet. Pur stonatissima, sono la prima donna in 150 anni a presiedere la Società del Quartetto di Milano, la più importante d’Italia nell’organizzazione dei concerti».
Avevo letto che detesta la mondanità.
«Infatti, la vita di società mi annoia, anche perché vado a letto alle 22. Ma la musica classica è tutt’altro. È la mia vita».
Invece suo padre amava i ricevimenti.
«E gli scherzi. Alla cena in onore del presidente Giovanni Gronchi, un’autoblù scaricò una scrofa fra gli invitati in smoking. Una volta lavorò di ago e filo un’intera notte per sostituire le mele con le pere nell’albero di un nostro vicino».
Perché era stato ribattezzato Micio?
«Chissà. Il conte Micio, lo chiamavano. Per una vita mi hanno regalato cani, ma io amo i gatti. Oggi ne ho tre, Brando, Emma e Tyke, l’ultimo trovato in un cassonetto. Ma si può? Che gente!».
Casa vostra andò a Silvio Berlusconi.
«La vendemmo io, mamma e i fratellastri. Mise gli assegni sul tavolo. Nonna Anna commentò: “Chi è questo qui, che non l’abbiamo mai sentito nominare?”».
«Il Foglio» l’ha definita «la dama Ilaria Borletti Buitoni». Indispettita?
«Ho sempre avuto un aspetto altero. Chi mi conosce sa che non è alterigia».
Per Marco Travaglio è «la baronessa Ilaria Borletti Buitoni, ma anche un po’ Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare», cioè un personaggio fantozziano.
«Di chi non ha scritto cose terribili? Càpita, se ti esponi nella vita pubblica».
Palmiro Togliatti diceva che per far politica devi avere la pelle dell’elefante.
«Oggi, con i social, lo scudo d’acciaio».
Perché si candidò con Scelta civica?
«Me lo chiese Mario Monti, per cui avevo e ho molta stima. Era giusto dire di sì a un uomo sceso in politica, o salito, come diceva lui, per salvare il Paese».
Donò al partito 710.000 euro.
«Non aveva fondi propri. Vuol sapere se lo rifarei? Forse no. Resta il fatto che le campagne elettorali hanno costi altissimi, che l’80 per cento dei candidati non si comporta in modo trasparente, che l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti fu una decisione scellerata, che l’asticella dell’etica si alza e si abbassa a seconda delle convenienze».
Poi però s’iscrisse al Pd.
«In Italia s’insulta sempre chi cambia casacca. Nessuno pensa mai che a volte è la casacca a mutare. Nel Pd era diventato segretario Matteo Renzi, un progressista liberale. Non posso dimenticare che le leggi sui diritti civili sono merito suo».
Diventò sottosegretaria ai Beni culturali nei governi Letta, Renzi e Gentiloni.
«Ogni volta ero in qualche stazione affollata, non capivo che cosa mi proponevano. Al giuramento mi ritrovavo sempre in fondo alla sala, praticamente vicino all’ascensore. Il primo giorno mi presentai al ministero alle 8. Gli uscieri erano sbalorditi: “S’è bbruciato er Colosseo?”».
Prima di lei c’era Vittorio Sgarbi.
«Uno degli sguardi sull’arte più affascinanti che l’Italia possa vantare. Ereditai i suoi autisti, abituati a scarrozzarlo di notte nei musei. Uno mi disse: “Onorevole, con lei ci si diverte molto meno”».
Ma che ne sapeva della politica?
«Da giovane ero stata responsabile dei rapporti con gli elettori per la senatrice Susanna Agnelli, eletta nel collegio Como-Varese-Sondrio. La gente arrivava in ufficio a chiedere sconti sulle auto Fiat».
Tornerebbe nel Palazzo?
«Non credo. Resta la passione. È stata la mia naia: ho capito com’è il Paese».
Com’è?
«Talmente in ritardo rispetto alla rivoluzione digitale che, se la politica non trova il modo di rifondarsi, vedo seri rischi per la nostra democrazia».
Fedez non sapeva che è esistito il regista Giorgio Strehler. Le pare grave?
«È più grave che 14 milioni di follower lo considerino il verbo».
Sua moglie Chiara Ferragni ignorava l’esistenza del Memoriale della Shoah.
«Gravissimo, considerato che di seguaci ne ha quasi il doppio. La logica dei like è spaventosa. Il decadimento culturale ed etico mi atterrisce».
Non dipenderà dall’eclissi del sacro?
«Lei ha centrato in pieno il problema. Ho chiesto a un cardinale: come mai durante la pandemia pregavano in pochi? Mi ha risposto: “Cosa vuole, c’è Netflix...”. Vivo tra Milano, Londra e Perugia. Ma sto bene solo in Umbria, perché ha ancora un’identità spirituale molto forte».
Invidia qualcuno?
«Solo chi riesce a dormire in aereo. Durante un volo Milano-New York, un signore ronfava beato. A un tratto spalancò gli occhi: “Vuole smetterla di fissarmi?”. Era Ugo Stille, direttore del Corriere della Sera. Il mio stupore lo aveva svegliato».
In che cosa trova conforto?
«Nel giardinaggio, nella potatura. Le piante hanno un ritmo consolatorio, richiedono azioni lente e metodiche. Mi sento come Gandhi che filava il cotone».
Ma lei teme più la morte o la vita?
«Della morte non ho paura. L’ho vista spesso fin da giovane. Spero, per quel giorno, che avesse ragione Goethe: “Mehr Licht”, più luce. A volte ho paura di essere sopraffatta da una vita che mi soffoca e da un mondo che non capisco».