la Repubblica, 28 luglio 2022
Quando a dimettersi fu De Gaulle
Ha suscitato molti interrogativi l’uscita di scena di Mario Draghi, avvenuta non per un voto formale di sfiducia in Parlamento bensì per una rottura del patto fiduciario con i partiti della maggioranza. La stampa straniera ancora si domanda quale sia stato il “raptus” suicida che ha indotto la coalizione di semi- unità nazionale ad autoaffondarsi. Altri sono andati alla ricerca di analogie storiche: quale altra figura di rilievo, non appartenente alla società politica, ha abbandonato il ruolo pubblico per un atto d’orgoglio conseguente a una frattura irreparabile, ritenendo che non ci fossero più le condizioni per svolgere una missione insieme tecnica e politica?
Il numero di casi è alquanto esiguo, almeno nelle società occidentali e senza risalire troppo indietro nel tempo. Il più calzante riguarda senza dubbio Charles De Gaulle nel 1946. Non si vuole con questo suggerire un paragone tra due profili assai diversi tra loro, figli di esperienze e circostanze storiche non sovrapponibili. Tuttavia qualche analogia la si può trovare nelle modalità con cui entrambi hanno abbandonato il palcoscenico pubblico in un momento di massima popolarità, circondati dal rispetto generale.
La storia dice che nel 1946 il generale De Gaulle, capo della “Francia libera”, l’uomo che aveva guidato la resistenza ai tedeschi e alla repubblica collaborazionista di Pétain, si dimise da presidente del governo provvisorio e se ne tornò nel piccolo paese di Colombey-les-Deux-Eglises, sua patria dell’anima. Tutti ritenevano che dovesse essere lui a guidare la ricostruzione post-bellica. Del resto, chi se non De Gaulle era in grado di parlare agli alleati e anche di confrontarsi con loro, non senza asprezza? Chi aveva altrettanta autorevolezza per tenere a freno i partiti e la cosiddettapolitique politicienne,
cioè gli intrighi quotidiani? Nessuno tuttavia aveva voglia di dargli carta bianca e quindi nessunoriuscì a convincerlo. Il destino, come diceva Malaparte, cambiò cavallo. In realtà il generale diede prova in quell’occasione di non essere più solo un grande “tecnico”, come era ancora agli inizi del conflitto, quando fu chiamato a prestare la sua opera come sottosegretario nel gabinetto di guerra Raynaud. Gli anni lo avevano cambiato e reso consapevole del suo carisma e di un notevole senso politico (si veda l’interessante volume, non solo una biografia, di Gaetano Quagliariello:De Gaulle).
Il generale lascia dunque senza mascherare un certo disprezzo verso l’inconcludenza dei partiti. In particolare De Gaulle critica la Costituzione come causa della debolezza delle istituzioni. Vorrebbe una grande riforma per abbandonare la Quarta Repubblica e inaugurare una stagione nuova, con un governo forte e non ostaggio delle forze politiche (il “regime dei partiti”). Su questo non ottiene ascolto e se ne va. Ma non abbandona del tutto la politica. Dietro le quinte e senza mai apparire agli occhi del pubblico come il protagonista dell’operazione, fonda insieme agli amici più fedeli il “Rassemblement du peuple français”. Naturalmente non pensa di candidarsi all’Assemblea nazionale: nell’arco della sua vita De Gaulle non prenderà mai parte a un’elezione legislativa. Lascerà che la vita parlamentare sia terreno per i suoi seguaci, e nemmeno tutti. Per quanto lo riguarda, il rapporto con l’opinione pubblica passerà attraverso le elezioni presidenziali e poi le consultazioni referendarie. Ma questa è materia per una fase successiva. Adesso, nel ’46, il generale si ritira come Cincinnato nel rifugio di Colombey.
Si è allontanato da Parigi, ma incombe come un padre della patria che all’occorrenza potrebbe tornare. Lascia che sia questa l’immagine che arriva ai francesi: il generale vittorioso che non può sottostare ai vizi della partitocrazia e quindi si sottrae ai politicanti, eppure non dimentica mai la Francia. Qui vediamo l’abbozzo di un’architettura che richiede una visione non comune. A lui non interessa il potere concesso a piccole o grandi dosi attraverso il negoziato quotidiano ed estenuante con i capi partito. Quello che gli interessa è interpretare la “France éternelle” richiamata il giorno della liberazione di Parigi. In tale ambizione c’è lo statista De Gaulle con le sue virtù e le sue contraddizioni: uomo antico per molti versi, un nazionalista conservatore figlio dell’ultimo scorcio dell’Ottocento; al tempo stesso saprà dimostrarsi un abile modernizzatore del suo Paese, capace di scrutare nel futuro lontano. Uomo di destra, è tuttavia in grado di abbracciare una visione sociale, persino socialista, dei problemi del tempo. Da presidente, cioè dopo il 1958, le maggiori ambiguità le riserverà alla politica estera: critico verso gli Stati Uniti, nessuna simpatia verso gli inglesi che pure lo avevano sostenuto quando tutto sembrava perduto, attento all’Unione Sovietica. Nemico degli accordi di Jalta ma pure dell’utopia di un’Europa integrata e federale. Anche qui le sue priorità saranno nel segno del nazionalismo.
Tuttavia ora che è a Colombey, verso la fine degli anni Quaranta, la sua preoccupazione è di apparire indecifrabile. Offeso e infastidito dalla piccola politica, lascia che i suoi amici del “Rassemblement” continuino a indicare la mediocrità del sistema e del suo personale politico, nonché l’inadeguatezza della Quarta Repubblica. Ha messo la questione delle istituzioni al centro di una battaglia che però non viene combattuta, solo adombrata. Con il passare del tempo l’isolamento del generale si accentua, anche perché il “Rassemblement”, suo braccio politico, conosce alterne fortune e poi si esaurisce. Rimangono a Parigi gli amici di sempre: Malraux, Chaban-Delmas, Debré, Foccart e pochi altri. Sono loro che tengono viva la leggenda del generale e fanno in modo che nessun francese lo dimentichi, vedendo in lui l’unica speranza di riscatto. Passeranno dodici anni, dal ’46 al ’58. La Francia attraverserà le tragedie dell’Indocina e dell’Algeria. Ma alla fine richiamerà Cincinnato e lo vorrà all’Eliseo perché scriva la nuova Costituzione e dia vita alla Quinta Repubblica. Lui, lontano dalle luci della ribalta, nella quiete della campagna, attendeva solo quelmomento.