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 2022  luglio 28 Giovedì calendario

Intervista a Mario Desiati

Mario Desiati, premio Strega, 45 anni, pugliese di Martina Franca, passato per l’Italia e per il mondo, è diventato una specie di santo protettore laico di una generazione precisa: quella degli Spatriati, come dal titolo del suo fortunato romanzo Einaudi, ragazze e ragazzi costretti ad andare. Senza essere sicuri dinon perdersi.
Desiati, siamo alla vigilia di elezioni politiche che, dati i sondaggi, dovrebbe portare la destra al governo. Un tempo difficile per gli “Spatriati”.
«Forse quello più difficile. Anche perché, incredibilmente, nessuno ne parla. E invece dovrebbero essere il centro del dibattito politico del nostro Paese. La domanda è semplice: com’è possibile che tanti dei nostri giovani debbano andare via dal nostro Paese? I dati dicono che l’Italia resta uno dei paesi europei con più emigrazione. Io non ho risposte. Ma il mio mestiere è raccontare storie e porre dubbi.
Appunto, perché vanno via?».
Ma ha ancora senso oggi parlare di confini e di nazioni?
«Sì. Se chi va via, è costretto a farlo.
Noi abbiamo un diritto: la possibilità di restare. E invece, spesso, soprattutto nel mio Sud questa possibilità non esiste.
Ripeto la mia domanda: come mai gli italiani che vivono nel “Paese dove fioriscono i limoni”, citando Goethe, come mai i giovani di un Paese che viene visto nel mondo come il luogo migliore per vivere, grazie al clima, alla bellezza della natura e del suo patrimonio artistico, sono costretti ancora ad emigrare come succedeva un secolo fa?».
Si sarà dato qualche risposta.
«Una condizione per me importante è il lavoro. Il mio secondo libro si chiamava Vita precaria e amore eterno, un titolo non casuale. Avere un mestiere, e dunque anche una vita precaria, è una condanna a cui la mia generazione, innocente, è stata condannata. E che, forse, ha accettato con troppo silenzio. Parlo di una cosa che conosco bene, per esempio: del mondo dell’editoria.
Per anni alcuni hanno accettato che il lavoro non fosse pagato, o fosse pagato molto poco. E lo hanno accettato perché veniva loro detto, anche implicitamente, che la passione fosse una leva per abbassare il compenso. Quel silenzio non è stato assolutamente una colpa. Ed è lo stesso che è accaduto anni dopo in tutto il mondo del lavoro, quando i contratti precari sono stati mutuati proprio dall’editoria».
Oggi però c’è chi dice: i giovani non vogliono lavorare. Per colpa del reddito di cittadinanza, non si riescono più a trovare dipendenti.
«Sinceramente mi sembra un’esagerazione. Un errore. Il punto non è che la gente non voglia lavorare. Ma che vuole essere pagata il giusto. La generazione nuova, per fortuna, ha imparato a pretendere quello che le spetta. A partire dal diritto di vivere una vita dignitosa anche fuori dal lavoro. La politica dovrebbe secondo me osservare. Non dare giudizi. E trovare una maniera perché il sistema tenga: deburocratizzare potrebbe essere un primo passoimportante».
Di cosa si dovrebbe parlare secondo lei in queste elezioni?
«Vengo da Martina Franca, Taranto è casa mia, come posso non dire l’ambiente? E poi: i diritti civili.
Intesi nel senso più pieno. C’è una parola che secondo me è sparita troppo velocemente dal nostro lessico, che è solidarietà. Che è per chi viene da lontano, ma anche per noi che siamo già dentro. Nella seconda parte di Spatriati, quella che forse ha fatto più discutere, racconto proprio queste comunità che nascono dal concetto di solidarietà. Si sta insieme anche per quello, per interessi, non solo economici ma anche di amore, di persone che si aiutano a vicenda. In nome della solidarietà c’è chi porta avanti un nucleo familiare, cresce insieme un figlio: a chi interessa se sono un padre una madre, due padri o due madri? La solidarietà è il centro. Da lì tutto dovrebbe partire. Ed è un discorso che viene dalle persone e non soltanto dallo Stato. Pensate a cosa siamo riusciti a fare, in Italia, nel dopoguerra, grazie alla solidarietà».
È spaventato dalla possibilità che la destra di Salvini e Meloni, così afona sui temi così cari a lei, possano governare il nostro Paese?
«Credo si debba fare un passo indietro. Ho vissuto a lungo in Germania. E penso che il percorso sul nazismo che è stato fatto dai tedeschi, in Italia con i fascisti non ci sia stato. Non è mai stata fatta chiarezza. Su questo c’è un dibattito anche tra gli storici: non abbiamo fatto mai i conti davvero con quello che è accaduto, abbiamo sempre pensato che l’8 settembre avesse cancellato tutto, come se i fascisti fossero stati portati dai marziani. La storia di oggi ci impone di non dimenticare da dove arriviamo. Quanto dolore abbiamo dovuto subire. Quanta fatica abbiamo fatto per uscirne.
Detto questo non credo sia una buona idea demonizzare gli avversari politici. Mai. Bisogna sfidarli sulle idee. Rispetto alla mia paura: mi fido della Costituzione e della sua capacità di essere argine per le derive, anche quelle peggiori».
La sua Taranto è stato il simbolo in questi anni del modo con cui la nostra politica ha affrontato il tema ambientale: molta confusione, qualche investimento, poco coraggio.
«Da quando sono nato il siderurgico occupa i tre quarti del mio orizzonte. Nel senso che dalla collina di Martina Franca si vede quasi solo l’acciaieria. C’è un territorio che per via dell’Ilva è cambiato per sempre. Ed è su questo che dovrebbe ragionare la politica: quando si decise di mettere il siderurgico a Taranto il sindaco accolse i primi operai con la banda, per la gioia. E ora? Io credo che per la politica, quando viene meno la lungimiranza, cominciano i guai. La lungimiranza è una caratteristica della democrazia. Oggi chi si propone di governarci deve offrirci non soltanto un’idea nell’immediato.
Ma una visione del mondo.
Vogliono piantare un albero che fa frutti per poco tempo? O un ulivo che ti dà le prime olive tra vent’anni, ma che se ben curato, te le continuerà a regalare per secoli?
Nella risposta ci sono le differenze, rispetto all’idea di mondo».