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 2022  luglio 27 Mercoledì calendario

Cronache della Marcia su Roma


Luglio 1922
Il triangolo fascista disegnato dalle occupazioni di Ferrara, Bologna e Cremona, con il ras indiscusso Roberto Farinacci, evidenzia uno Stato a pezzi, incapace di controllare la violenza in ascesa A Novara, l’assassinio di una camicia nera innesca la rappresaglia squadrista con assalti, incendi, devastazioni nei paesi della provincia Nel vuoto politico, il Re chiede a Facta di formare un nuovo governo
La camicia nera di Roberto Farinacci spunta all’ingresso del municipio nei 29 gradi del primo pomeriggio, con l’umidità al 73 per cento e ogni tanto un soffio debole di vento da nordest. Caldo, e la città vuota nella pigrizia silenziosa della pausa per pranzo, come se non ci fosse niente da aspettarsi da quella giornata soffocata, con l’arcata dei portici del palazzo comunale che inquadra le strade deserte di Cremona nella solitudine del 3 luglio, lunedì. Poi tutto si mette in movimento. Lui ha 29 anni, è stato volontario e combattente in guerra, da impiegato delle ferrovie è diventato capostazione e soprattutto adesso è il ras indiscusso del fascismo in città e provincia, fedelissimo di Mussolini e soprattutto degli agrari, che lo finanziano. Sale le scale a passo di corsa seguito da due giovani squadristi, entra nella stanza del sindaco, si siede sulla poltrona rossa, e preso un foglio dal cassetto scrive una lettera a Sua Eccellenza Giuseppe Guadagnini, Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia: «Illustrissimo Signor Prefetto, per la dignità di Cremona che è da tempo senza giunta, quale rappresentante in parlamento di questa città mi sento in diritto e in dovere di nominarmi sindaco provvisorio di questo Comune». Firma, poi impartisce il suo primo ordine agli squadristi: devono occupare subito la piazza del Comune per evitare che la forza pubblica intervenga obbligando i fascisti a riconsegnare il municipio alla giunta social- comunista. Arrivano i camion, coi cassoni pieni di uomini armati. Mentre le camicie nere si schierano, vedono il gagliardetto del fascio che sale trionfante sul balcone del Comune, dove viene ammainata la bandiera rossa con la falce e il martello che sventolava da due anni, dopo aver vinto le elezioni: inutilmente.
Lo scempio della legalità politica sfigura i municipi italiani, deforma lo scheletro elettorale della geografia urbana, svuota la sinistra della sua rappresentanza e infine la mette fisicamente al bando dalle città che aveva conquistato col voto. Per tre settimane nel luglio ’22 Cremona è la capitale di questa usurpazione violenta. L’impotenza dello Stato corre sui fili del telegrafo, col prefetto che informa Roma dell’assedio fascista, e il governo che si chiama fuori e suggerisce di presentare una formale denuncia al Procuratore del Re. Ma non c’è tempo. Farinacci pretende che il prefetto chiuda subito la stagione della Cremona rossa, nominando un commissario. Anzi, per forzare la mano gli squadristi vanno casa per casa a cercare gli amministratori socialisti e comunisti, minacciandoli e costringendoli a dimettersi. Quando alle quattro del pomeriggio li vede arrivare e prendere a spallate la porta, il comunista Silvio Barbieri si chiude in casa a doppia mandata, tira fuori la pistola e spara in aria, finché la polizia arriva sul posto e arresta lui invece delle squadre che tentavano la violazione di domicilio: e adesso hanno invaso le abitazioni di altri quattro consiglieri e stanno bastonando in via Bergamo il capomastro di un cantiere che si rifiuta di dire dov’è Ernesto Ferrari, muratore e amministratore in municipio.
Le squadre arrivano di notte a Cremona e il 13 distruggono la “Cooperativa Braccianti” e la società “Lavoratori” di Porta Mosa, assaltano la “Tipografia Proletaria” dove si stampa L’Eco del popolo devastandola: e infine penetrano dai tetti nella Camera del Lavoro dove gettano in strada registri, documenti, poltrone e armadi, sfregiano e incendiano tutto quel che trovano. Nel crescendo delle violenze muore un fascista, il segretario del partito a Marmirolo Giovanni Baroni, ucciso da due colpi di rivoltella di un brigadiere dei carabinieri. Nessuno riesce più a governare la città trasformata in un ordigno pronto ad esplodere.
Il governo è completamente in balia degli eventi, sembra piegarsi sotto la tempesta sperando che passi da sola, come dimostra l’incredibile intervento alla Camera del sottosegretario agli Interni Antonio Casertano sulle incursioni fasciste: «qualora gli amministratori del Comune intendano tornare al loro ufficio, saranno sostenuti dal governo, ma se questo non intendessero fare, le loro dimissioni potrebbero liberare la situazione». Un invito a sgombrare il campo – da parte di chi dovrebbe garantire la legalità –, chinando il capo davanti al sopruso fascista. Mentre la Camera sta discutendo il caso Cremona, sabato 15 luglio, arriva in aula la notizia che gli squadristi sono penetrati nell’abitazione del parlamentare socialista Giuseppe Garibotti e in via Stazione hanno preso d’assalto la casa del deputato popolare Guido Miglioli, incendiandola. Libri, schedari, mobili giù dalla finestra insieme con le persiane divelte, poi uno squillo di tromba richiama in strada le squadre che si dispongono in quadrato sulla piazza del Comune issando Farinacci sulle spalle. Matteotti chiama in causa direttamente Facta: «Dov’è? Cos’ha da dire? Andate a cercarlo. Continua ancora a ripetere nutro fiducia?». Il socialista Tonello si volta verso i popolari: «Le case dei nostri colleghi bruciano, e noi stiamo qui a discutere. Voi che fate? Cosa aspettate? Non vi basta ancora?».
Il governo insegue i fatti, non è in grado di dominarli. Il 17 luglio Facta scioglie il Consiglio comunale. Ma Farinacci il giorno dopo proclama la messa al bando di Miglioli e Garibotti, annunciando che ai due deputati «si tolgono per sempre l’acqua e il fuoco. Qui da noi la loro presenza non è più tollerabile. Se ne stiano a Roma, o vadano all’inferno». Così, denuncia Critica Sociale, si arriva «a una dittatura sub-militare». E i giornali liberali cominciano a intravvedere davvero lo spettro della svolta totalitaria. Ancora una volta Mussolini (che pochi giorni prima aveva esaltato le «decisive battaglie di epurazione locale») deve frenare lo squadrismo più cieco: «Lo scopo per cui foste chiamati a Cremona è raggiunto – scrive a Farinacci —, il Comune è ormai irrimediabilmente perduto per i socialisti. Tornate quindi alle vostre case, vigilanti. Il Fascio vi ringrazia e vi saluta con un triplice, poderoso Alalà».
Senza più forza e senza credibilità, Facta affonda alla Camera un mercoledì di luglio, il 19.

I popolari s’incaricano di raccogliere il sentimento politico generale di fine d’epoca: il loro ordine del giorno che accusa il governo di non aver realizzato la pacificazione del Paese viene votato da comunisti, socialisti, democratici, repubblicani e fascisti. «Il governo non può vivere decorosamente sentendosi circondato dalla tolleranza piuttosto che dalla fiducia della sua maggioranza — dice Mussolini —. E il partito fascista non può essere parte della maggioranza e al tempo stesso agire nel Paese come è costretto a fare. Esso risolverà prossimamente questo suo intimo tormento e dirà se vuole essere un partito legalitario o insurrezionale, nel qual caso potrà anche non sedere più in questa Camera. Io preferisco che il Fascismo giunga alla direzione del Paese attraverso una saturazione. Devo però avvertire che nessun governo potrà reggere quando abbia nel suo programma le mitragliatrici contro i fascisti». I socialisti parlano di “crisi di Stato”, non solo di governo: «Tutta l’Italia centrale è ridotta in catene, tutto il proletariato della valle padana è sottoposto a una tirannia che non ha precedenti neppure nelle occupazioni straniere. Il nuovo governo dovrà garantire alle masse operaie il diritto di sciopero, di organizzazione, di propaganda, che in Italia è stato violentemente soppresso: e le concentrazioni di bande armate non devono essere tollerate. Se lo Stato monarchico non si sente di assolvere a questa funzione, lo confessi, smetta di recitare la commedia della neutralità e si ponga anch’esso fuori dalla legge».
La crisi si apre al buio dopo che Facta è entrato alle 10 del mattino a Villa Savoia, per dimettersi nelle mani del Re, sedendosi davanti alla scrivania abbassata su misura per il sovrano. Il Paese sta scivolando alla deriva senza guida, fuoriuscendo dal quadro delle istituzioni liberali e dallo Statuto. Luglio somma l’assenza di governo con la vacuità dello Stato, la pavidità della magistratura, la debolezza delle polizie, lo smarrimento dei questori, la mancanza di autonomia dei prefetti, l’infragilimento del parlamento dileggiato: «la Camera italiana fa proprio schifo», ripete Mussolini. I popolari per primi propongono una svolta con un governo che tagli le due ali del fascismo e del socialcomunismo per puntare sul “dovere patrio inderogabile” di ripristinare «l’impero della legge, la pacificazione degli animi e l’autorità dello Stato». Turati, che secondo le voci del parlamento ha incontrato segretamente don Sturzo, sembra incoraggiare questa ricerca di un nucleo politico di responsabilità nazionale, davanti al pericolo: «Dopo tanti appelli vani alla pacificazione, ormai neppure Cristo potrebbe dire parole di pace, e il sermone della montagna sarebbe interrotto dal crepitio delle fucilate. Quando si incendiano le case e si minaccia la chiusura del parlamento, la questione è di sapere se l’Italia debba essere un Paese civile o se è definitivamente imbarbarita».
Prova a trovare una maggioranza Orlando, tenta Bonomi, poi il popolare Meda, quindi il liberale De Nava. Ma il vero nome che ritorna in tutti i sussurri è quello di Giolitti. Il vecchio statista è al “Des Ambassadeurs” di Vichy, uno dei primi hotel in Francia con la luce elettrica, vicino alla sorgente famosa per i quindici minerali. Nella città termale c’è anche Georges Clemenceau, presidente del Consiglio francese fino adue anni prima: soggiorna in una casa di salute, non vuole essere disturbato, per evitare noie va allo stabilimento alle sei del mattino e la sera per essere sicuro di non avere incontri manda la domestica a prendere l’acqua curativa. Quando gli danno notizia dell’arrivo di Giolitti e gli chiedono se vuole parlargli, spiega che non è il caso: «A che pro? Non potremmo certo brindare con l’acqua di Vichy». Ufficialmente Giolitti riposa, passeggia, cercando il beneficio dell’acqua celtica venerata nei secoli. Ma la verità è che scruta da lontano ogni movimento a Montecitorio; parla al telefono con il suo informatore abituale Camillo Corradini; e soprattutto spedisce e riceve telegrammi con cui amministra le sue mosse sullo scenario italiano. Un’assenza presente, insomma, un rimanere fuori per veder meglio il gioco dentro il recinto parlamentare.
Il primo sollecito amichevole a prepararsi per tornare in campo è di Alfredo Frassati, proprietario della
e ambasciatore a Berlino, amico personale di Giolitti, a cui scrive una lunga lettera un mese prima della caduta di Facta: «In questo momento è ufficio tuo porti al di sopra di socialisti e popolari, guida per condurre le plebi al primo loro passo dentro lo Stato. Il movimento di unione delle forze proletarie deve fatalmente avvenire. Ora tu sei il solo a dare garanzia che questo movimento avverrebbe dentro l’orbita dello Stato, per rinforzarlo, non per indebolirlo o abbatterlo». Poi Corradini lo mette al corrente di un intervento vaticano, «una revoca della Curia», che ha bloccato l’azione dei popolari. Il 20 luglio parte da Vichy il primo telegramma deciso e laconico per Facta: «Non vengo Roma volendo riservarmi piena libertà azione stop». Sempre il 20 Giolitti firma una lettera per Olindo Malagodi: «La situazione è così assurda che se fossi stato a Roma ne sarei partito immediatamente. Cosa può venire di buono per il Paese da un connubio Sturzo-Treves-Turati? Io mi sono posto fuori concorso: sono uno di quei vecchi avvocati che non assumono più cause, ma danno ancora dei pareri. Ora però non saprei che parere dare. Il nuovo governo o si getterà a capofitto nella lotta contro il fascismo, e porterà alla guerra civile; oppure userà la necessaria prudenza e i paurosi lo rovesceranno. Sono fuori, ne ringrazio Iddio, e resto fuori». Il 26 luglio Giolitti riceve una lettera da Facta: «Per sincerità debbo dirti che l’unico che potrebbe mettere le cose a posto sei tu. Comprendo quale ripugnanza tu abbia a ritornare qui. Sei un tale uomo, però, che se occorresse compiresti ancora qualsiasi sacrificio». Ma Giolitti sta partendo per Parigi, poi proseguirà le sue vacanze in Olanda. Quando consegna le valigie al facchino per andare alla stazione, taglia corto con chi gli chiede come finirà la crisi di governo in Italia: «Siamo nella merda, e ci resteremo».
A luglio il 1922 sembra aver scelto il suo destino. Il triangolo fascista disegnato con le occupazioni di Ferrara, Bologna e Cremona evidenzia uno Stato a pezzi: e manca ancora Novara, dove l’assassinio di un fascista innesca la rappresaglia squadrista con assalti, incendi, devastazioni nei paesi della provincia. La frazione “rossa” di Lumellogno è il nuovo luogo simbolico da espugnare per i fascisti, che ingaggiano la battaglia domenica 16 luglio, con manipoli che arrivano da fuori in bicicletta. Scontri durissimi, ma Lumellogno respinge le camicie nere e diventa l’esempio della resistenza possibile alle camicie nere. Poi tocca a Ravenna, dove il fascismo tenta l’assalto alla città, alla Romagna rossa e alla potenza economica del sistema cooperativo guidato dal deputato socialista Nullo Baldini.
Prima il Fascio spacca l’associazione dei birrocciai che ha il monopolio del trasporto dei cereali dopo la trebbiatura. Nasce un sindacato fascista, scatta lo sciopero, gli squadristi pungono le bestie che tirano i carri degli avversari e si imbizzarriscono, in un clima di tensione alle porte della città dove si è concentrata la protesta. La guerra dei birrocci degenera, i fascisti arretrano lanciando due bombe a mano alla porta di via Cavour, un’altra nel circolo repubblicano dei Vicoli. Arriva il facchino fascista Giovanni Balestrazzi, in camicia nera. Gli scioperanti lo circondano, lo colpiscono atterrandolo, lo uccidono a colpi di randello. Sparano i carabinieri, altri colpi arrivano dalle finestre, dodici morti, 60 feriti, Borgo Saffi è un campo di battaglia.
Giunge Italo Balbo, in piedi col moschetto in pugno sull’auto che corre in città. Ha già chiamato le squadre di rinforzo da Bologna e da Ferrara, ha imposto la chiusura dei negozi per “lutto fascista”, sta mandando i manipoli nella case dei comunisti e dei socialisti per cacciarli da Ravenna, con un bando appeso ai muri. Lui stesso parla di “scene di guerra”. Ma siamo all’inizio. Ifascisti progettano un gesto macabro ed esemplare, per completare l’opera: prima che sorga il sole una squadra penetra nell’ospedale addormentato, apre la camera mortuaria e rapisce il cadavere di Balestrazzi trasportandolo alla Casa del Fascio, presidiata dalle camicie nere che montano una guardia d’onore. Balbo va dal prefetto, gli annuncia che una grande mobilitazione fascista porterà alle cinque del pomeriggio una folla enorme ai funerali, e chiede che tutte le forze di polizia vengano concentrate sul corteo. Ma mentre la processione funebre si muove scortata, le camicie nere si staccano dalla fila correndo, raggiungono la Casa del popolo repubblicana e la occupano barricandosi all’interno: pronti a restituire la sede al Pri solo in cambio di una rottura dell’intesa coi socialisti nell’Alleanza del Lavoro, in un nuovo patto suicida. Poi, la notte, arriva il fuoco. I fascisti bruciano il palazzo storico della Federazione delle cooperative socialiste, cuore fisico e simbolico dell’organizzazione che raggruppa oltre cento centri sociali di lavoro e di consumo. «Purtroppo la lotta civile non ha mezzi termini — conclude Balbo in una confessione nichilista tra i bagliori delle fiamme — , noi giochiamo la vita tutti i giorni e abbiamo compiuto quest’impresa con lo stesso spirito con cui si distruggevano in guerra i depositi del nemico. Dobbiamo dare agli avversari il senso del terrore».
Sembra ormai che la violenza preceda le sue motivazioni, e faccia a meno di qualsiasi tipo di giustificazione: semplicemente compiendosi, come se rispondesse a un obbligo dell’epoca, o a un destino maledetto. Gli squadristi attaccano ancora sedi anarchiche e comuniste nei sobborghi Fratti e Garibaldi, poi Balbo tratta col prefetto lo sgombero, carica su una colonna di camion forniti dal questore le milizie nere, ma invece di smobilitare le scaglia contro tutte le “case rosse” sedi di organizzazioni di sinistra che incontra in 24 ore di guerriglia, mettendo a fuoco paesi e città tra Forlì e Ravenna. C’è in Balbo, man mano che procede nella distruzione, un’emozione estetica, un’ubriacatura funerea di morte, come se assistesse da fuori al suo spettacolo di devastazione: «E stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e fumo. Tutta la pianura di Romagna fino ai colli è stata sottoposta all’esasperata rappresaglia dei fascisti, decisi a finirla per sempre col terrore rosso». È già un istinto totalitario, che punta a svellere definitivamente, dovunque e con ogni mezzo qualsiasi presenza proletaria organizzata. Con un riflesso automatico, spinta dall’angoscia della base, ingannatadal velleitarismo dei proclami, pressata dai ferrovieri anarchici l’Alleanza del Lavoro annuncia lo sciopero generale «in difesa delle libertà politiche e sindacali minacciate dalla reazione ». Uno sciopero «per la libertà», dice l’appello ai lavoratori; “legalitario”, aggiunge il comitato segreto d’azione che guida la protesta, perché gli operai devono astenersi da ogni violenza, per lanciare «un avvertimento solenne al governo del Paese».
Ma il governo non c’è, e il vuoto politico genera mostri. La bomba dello sciopero generale scoppia in mezzo alla crisi di governo, mentre il gruppo dei deputati socialisti conferma il 28 luglio la rottura col partito e dichiara «proprio dovere non arretrare davanti ad alcuna azione capace di far rispettare la difesa della libertà»: i riformisti alla Camera sono dunque pronti a sostenere un governo che riporti la legalità democratica in Italia. C’è di più. Come se avvertisse di colpo tutto il dramma del ritardo politico con cui la sinistra si muove contro la prevaricazione fascista, Filippo Turati sabato 29 alle 15,40 decide improvvisamente di salire le scale sovrane del Quirinale per rendere visita al Re, che in mattinata lo aveva cautamente sondato attraverso il presidente della Camera De Nicola. I due non si erano mai incontrati, e la consultazione diretta esce dalla prassi socialista, fedele allo spirito repubblicano nella forma come nella sostanza, e rompe un costume morale e politico: non si va dal Re, non ci si inchina alla corona, non si avvicina il trono. Turati porta il suo riformismo fuori dalla tradizione socialista perché l’eccezionalità dei tempi cambia tutto, anche il sistema di relazione con il potere. Non cerca benevolenza nel Re, ma un residuo d’autorità pubblica, in un Paese che l’ha perduta. Vuole ricordare a Vittorio Emanuele III il dovere di garantire quello spazio vitale all’azione politica che il fascismo minaccia, e vuole dare un profilo fisico, concreto, personale, all’ipotesi di un’intesa tra popolari, democratici e socialisti. Ma il collaborazionismo arriva all’appuntamento con il luglio ’22 stremato, la lunga rincorsa non gli consente ormai più di afferrare il bandolo della crisi, e lo sforzo riformista di Turati si arena solitario, nell’accidia democratica delle altre forze in parlamento. Anche la risposta che il leader socialista trova al Quirinale è deludente, come se il Sovrano allargasse le braccia di fronte alla sventura: «Un Re costituzionale non può fare molto».
Mussolini adesso può liberare le ironie del suo giornale: «Povero Filippo. Il vecchio buffone che nel 1919 usciva dalla Camera mentre ilRe vi entrava, oggi ha mendicato un’udienza alla reggia per ripetere il veto contro la destra. Inutile fatica, perché un governo di sinistra non si fa e non si farà».
Il Comunista
racconta addirittura che due dame dell’aristocrazia di sinistra hanno accompagnato il Capo del riformismo al portone della reggia, per condividere il passaggio storico.
L’Avanti
sostiene malizioso che dopo essere arrivato al Quirinale in taxi Turati si ferma confuso, torna indietro, e deve chiedere al guardaportone la strada nel palazzo. Poi il giornale socialista boccia in pieno l’incontro: «È l’inizio della collaborazione di Turati con la monarchia e con la borghesia, e la fine dei suoi rapporti di partito con noi. La visita al Re definisce e fisionomizza il suo socialismo: conservazione». «Siamo preparati al sarcasmo — aveva messo le mano avanti
la Giustizia
»—. Ma i compagni d’Italia comprendono che il passo di Turati non è piaggeria o umiliazione, bensì l’inizio di un ritorno alla normalità civile, necessaria per ogni futura elevazione del proletariato ».
Forse qualcuno aveva sperato, illudendosi, che la spallata dello sciopero potesse inclinare la crisi di governo a sinistra. Ma il Re, appena il 28 corrono le prime voci di sciopero generale, si allarma all’idea che una mobilitazione nazionale di protesta trovi lo Stato sguarnito, sospende le consultazioni, incarica Facta di formare un governo e lo spinge a far presto. Sembra che tutto precipiti con la fine del mese, in una corsa cieca del Paese in affanno, con la politica che non riesce a riprendere la guida di un sistema logorato e ormai costretto a vivere sui nervi tesi di un equilibrio selvaggio.
Solo Facta pare uscito da un incubo, in quei giorni di crisi, e non pensa di ritornarci, mentre sta correndo in macchina a Tivoli per una gita con la moglie Maria, il segretario Amedeo Paoletti e il capo di gabinetto Ermes Ferraris, nel primo pomeriggio di domenica 30 luglio. «Ne ho abbastanza della lezione ricevuta», scrive a Giolitti il 26 luglio. Donna Maria, come la chiamano al Viminale, ha i bauli pronti, solo da chiudere nel momento in cui nascerà il nuovo governo e potrà partire in treno col marito per tornare a Pinerolo. Lui pare non sentire il peso della crisi, e del buio che la circonda. Racconta che nell’ultimo incontro a Villa Savoia il Re è stato molto gentile, e gli ha mostrato la sua collezione di medaglie, che occupa una sala intera. Spera di poter lasciare presto Roma per riposare «lo spirito e il corpo» nella vigna pinerolese di famiglia, col nipotino Gigetto. Non cova vendette, anzi: «La cosa deve finire, e speriamo che finisca presto».
Ma appena rientrato da Tivoli, alla sette di sera, trova a casa una convocazione del Re. «Povero me», dice subito, pensando che Vittorio Emanuele gli proporrà il reincarico. Il colloquio dura trenta minuti. Il Re chiama in causa la Patria, evoca lo sciopero, ricorda che il
Popolo d’Italia
ha appena pubblicato un articolo per avvertire tutti che è “L’ora di Mussolini”: Facta deve ritentare. «Non so se ho le forze per fronteggiare tutto questo», risponde il presidente del Consiglio dimissionario. E a questo punto, sapendo di avere di fronte un suddito devoto, Vittorio Emanuele chiede a Facta un sostegno personale al Re: «Non vede che sono abbandonato da tutti? Che tutti pensano alle loro posizioni politiche invece di pensare al Paese? Accetti, lo faccia per i miei figli». «Vedi bene che tutti scappano dalla responsabilità tremenda del potere in un momento come questo — dice Maria al marito quando torna in via Sardegna — . Perché tu hai accettato?». «Proprio per questo — risponde Facta — . Avevo il dovere di non abbandonare il mio Re». Poi, quattro giorni dopo, si sfoga per lettera con la figlia Rita: «Dovranno rimangiarsi un’altra volta un po’ di Facta, tuttavia so benissimo che molti mi prendono a denti strettissimi e mi giocheranno qualche tiro: ci sono troppe cose marce in giro. Ma credimi, ho fatto il sacrificio più tremendo che tu possa immaginare ». Quindi una confessione: «La scena che ebbi col Re fu addirittura tragica, io non posso raccontarla in una lettera che potrebbe perdersi, ma fu così impressionante che non ho potuto rifiutarmi di tentare una soluzione di una posizione terribile». L’ultima riga: «di salute stiamo bene». E l’Italia?
Qualcuno chiede un vaticinio a D’Annunzio, da tempo silenzioso. «La bassezza della situazione — risponde il Poeta — mi rende perplesso sull’opportunità di far udire la mia voce lontana ». Poi arriva l’ultimo consiglio: «Lasciamo che le scimmie in gabbia si mordano la coda».