La Stampa, 27 luglio 2022
Una biografia di Raymond Loewy
In cerca di un’icona del design? «Citofonare Loewy». Il franco-americano Raymond Loewy (1893- 1986) è stato un’istituzione del design industriale e una figura autenticamente global della creatività. Un maestro che ha mostrato con la sua opera che il design «è» comunicazione.
Torna adesso in libreria la sua autobiografia Non accontentarsi mai (Mare Verticale, pp. 445, euro 28; trad. di Ettore Visconti), pubblicata originariamente in inglese nel 1951. Un titolo che è un programma e rispecchia fedelmente la sua attività di superdesigner (già pubblicitario e illustratore), protagonista del Modernismo nelle arti applicate e interprete nel disegno industriale della concezione futurista della velocità. Un volgarizzatore del design che portò, letteralmente, alle masse, veicolando nell’immaginario collettivo una visione fondata sull’estetica e con il tratto-marchio di fabbrica più inconfondibile situato nella «semplificazione delle forme arrotondate», come ricorda nella prefazione il presidente dell’Adi Luciano Galimberti. Quell’«irresistibile inclinazione» per la curva che ne fece uno degli esponenti principali dello Streamline, il movimento di progettazione sorto negli Anni 20 a partire dallo studio del coefficiente di resistenza aerodinamica reso possibile anche dalla realizzazione, proprio in quel periodo, delle «gallerie del vento».
I designer di questa tendenza si appropriarono del concetto di «streamlining» e delle forme aerodinamiche più per motivazioni di originalità estetica che di funzionalità, venendo a incontrare in questa scelta stilistica un’esigenza del mondo aziendale. All’indomani della Grande Depressione, infatti, numerose imprese statunitensi decisero di attingere a questa cultura progettuale, puntando a migliorare i prodotti già esistenti per farli sembrare nuovi. Il crollo di Wall Street e la problematica della saturazione dei mercati fecero scaturire l’intuizione di abbellire le merci per venderle meglio. Di qui arrivò la spinta propulsiva maggiore per quella «nuova e a volte spaventosa forma d’arte» (come la definì il New Yorker) che fu l’industrial design. Una metamorfosi che Loewy compendiava nello stile della carrozzeria: «Non esiste settore del design industriale che sia più soddisfacente e meglio integrato di quello dello sviluppo di una nuova linea di automobili». E, dunque, nei comparti produttivi non ancora investiti dal design industriale dominano – annotava – «bruttezza, inefficienza e uno sviluppo antiquato», il cui superamento, voluto da una comunità degli affari in forte espansione, ha determinato le condizioni per la crescita impetuosa della professione del designer industriale. All’inizio faticosa, e non sempre ricolma di gloria, descritta da Loewy come un «cocktail» composto per il 25% di creatività e per il rimanente 75% di spostamenti e viaggi di lavoro anche all’interno di quell’America profonda e di quel Midwest che ricordano certe atmosfere della Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Con la fondamentale differenza che Loewy accompagnò, invece, il trionfo della sua disciplina; e che i designer come lui, Henry Dreyfuss e Walter Dorwin Teague, hanno identificato gli agit-prop – anziché i più «grigi» e anonimi agenti di viaggio – dell’affermazione assoluta del consumismo e dell’American way of life patrocinati dal Big Business e dalle corporation a stelle e strisce.
Di questo mutamento Loewy è stato, per tanti versi, il re (e regista), arrivando a dirigere lo studio di design più importante degli Usa. Un’agenzia, inaugurata quando aveva 37 anni, che arrivò ad annoverare uffici a New York e Chicago, Londra e Parigi, e in svariate altre città degli Usa, e oltre 200 dipendenti alla metà del XX secolo. Lo studio guidato da Loewy ebbe una vera e propria egemonia progettuale nei trasporti fra gli Anni 30 e i 50, e collaborò con moltissimi big del capitalismo: da Pennsylvania Railroad a Greyhound, da Shell a Coca-Cola, da Frigidaire a Nabisco. Come diceva lui stesso: «Dai rossetti alle locomotive», ispirandosi a Shakespeare, Dick Tracy e Oscar Wilde, sotto la stella polare del concetto di «industrializzare il bello», e di quello – che tratta diffusamente in questo «autoritratto» in forma di libro – di «Most Advanced, Yet Acceptable». Vale a dire (anche per ragioni di profitto dell’agenzia): proporre sempre e immancabilmente al cliente la soluzione più compiuta e avanzata ma pure, al medesimo tempo, fattibile. Inserito da Time in copertina nel ‘49 e selezionato nel ‘90 da Life fra i 100 statunitensi più importanti del Novecento, Loewy ha impresso in maniera indelebile sul «Secolo americano» il suo personal brand. Basti citare il florilegio composto dal pacchetto di sigarette Lucky Strike, il nome e il logo di Exxon, la livrea e le decorazioni dell’Air Force One e il restyling della visual identity di Shell. Dopo la Seconda guerra mondiale, Loewy divenne ambasciatore globale della «rivoluzione» dell’industrial design, esportandola in Europa e nei Paesi in via di sviluppo (e perfino in Urss). Insieme con una vera e propria metodologia, fulcro di questo successo planetario: il coordinamento flessibile tra diverse professionalità con al centro il designer che si interfacciava costantemente con l’imprenditore e guardava attentamente allo stile di vita dell’utente finale. L’industrializzazione del bello, giustappunto, con l’assunzione di una primitiva e aurorale forma di responsabilità sociale. —