La Stampa, 27 luglio 2022
Intervista all’alpinista François Cazzanelli
Mezzogiorno di martedì 19 luglio. François, 32 anni, guida del Cervino, e Gordon, 41 anni, militare britannico, sono a 8.035 metri sulla cresta di roccia e ghiaccio modellato dal vento del Broad Peak, gigante del Karakorum, Pakistan. Fra loro e la vetta ci sono 12 metri di dislivello e cento di sviluppo. Nessuno dei due è arrivato in cima. François Cazzanelli è rientrato il giorno dopo al campo base, Gordon è precipitato per mille metri. Fra loro non c’era stata neppure una parola. La guida del Cervino che fa parte di un team valdostano di altri cinque guide che nei giorni scorsi erano in vetta al Nanga Parbat (8.125 metri), sempre in Pakistan, adesso è con i compagni ai piedi del K2, prossimo obiettivo.
Cazzanelli, che cosa è accaduto?
«Su quella cresta ci siamo bloccati uno davanti all’altro, a circa 5 metri di distanza, come se avessimo incontrato un alieno. Eravamo arrivati fin lì entrambi da soli, senza mai incrociarci…». François prende fiato, fa una pausa, si schiarisce la voce. «Incredibile. Sento un dolore in me, ho assistito ad altri incidenti, ma così...».
Un appiglio mancato, un crollo?
«No. Un passo e il vuoto. Quando alle 12 ho alzato la testa, dopo aver piantato i piedi sulla cresta, ho visto davanti a me, un po’ più in alto, l’alpinista che poi ho saputo essere Gordon, alla base di uno stretto canale. Passaggio obbligato, che occorre fare uno per volta. Ero sorpreso di vedere qualcuno in quel punto senza averlo mai visto prima. Abbiamo alzato una mano in segno di saluto, un cenno con la testa. Nessuno dei due ha parlato».
E Gordon le sembrava stesse bene?
«Difficile dirlo. Di certo era lucido. Ha guardato in su, indicando il canalino che a dir tanto è alto 3 metri, poi si è rivolto verso di me e con le mani mi ha mimato una domanda del tipo “vai tu per primo o vado io?"».
E lei?
«Sarebbe stato complicato e sciocco, dirgli “vado io”, lui si stava già preparando a fare quei pochi metri. E, allora, sempre con le mani gli ho fatto segno di precedermi».
È allora che è precipitato?
«Già… Come me aveva lo zaino in spalla. Si è girato per prepararsi a salire. Un passo, forse un passo e mezzo e lo zaino ha sbattuto contro la roccia. E lui ha perso l’equilibrio, è stato spinto in avanti, verso il ripido scivolo di neve e rocce».
Inghiottito dal vuoto?
«No, no, è scivolato per un attimo, poi si è capovolto a testa in giù ed è sparito senza un grido. Sono rimasto impietrito».
Senza un grido?
«Sì. Avevo già assistito a una cosa del genere. Un incidente sul Cervino, un alpinista volato in parete senza neppure un grido di richiesta d’aiuto, di paura. Credo che sia come una sospensione di coscienza. Ho sentito altre testimonianze simili».
E che ha fatto o pensato?
«Immobile, con i ramponi piantati in ghiaccio e neve, con una mano a stringere il manico della piccozza. Mi sono detto “devo fare qualcosa"».
Lei è guida e fa parte anche del soccorso alpino valdostano.
«Sì ma lì è un’altra cosa. Sei in una situazione psicologica diversa, su una montagna che non conosci, solo, a ottomila metri. Ho pensato a una cosa incredibile, mi aspettavo di vederlo uscire pochi metri più in basso, dove le rocce mi avevano impedito la vista quando è precipitato. Poteva magari essere riuscito a fermare la caduta, ad ancorarsi in qualche modo. Una speranza, nient’altro. La montagna e la logica indicavano altro».
Mancava poco alla cima.
«Sì, forse mezz’ora. Ma non ci ho più pensato. Sono stato lì per un’ora e sono riuscito a contattare il collega Emrik Favre al campo base. Poche parole, poi gli ho detto “scendo”. E a me stesso ho ordinato “vai con calma"».
Doveva scendere di mille metri, a campo 3.
«Così ho fatto. Ci ho impiegato 4 ore. Avevo soltanto uno zaino con 7 chili di roba e non avevo cibo. Avrei dovuto salire e scendere in un giorno. E al campo… un po’ scostato dalla traccia ho visto gli scarponi di Gordon arancioni e neri, poi la sua tuta d’alta quota rossa e…».
Lei era solo, perché?
«A differenza dei miei compagni salivo con il mio stile, in velocità. Ero partito a mezzanotte dal campo base e intorno alle 11 del mattino ho incontrato il russo Denis Urubko che scendeva e mi ha detto “è tardi per salire” e io gli ho risposto “sono arrivato fin qui in 11 ore”. Denis mi ha spronato “allora fila su, dai”. Poi ho incontrato i miei compagni Marco Camandona e Pietro Picco che scendevano dopo la vetta. Proprio Pietro mi ha poi aspettato al campo 3 dove abbiamo passato la notte nella tenda degli sherpa. L’indomani al campo base c’erano i commilitoni di Gordon. Mi hanno mostrato una sua foto per sapere se l’uomo che avevo visto precipitare fosse lui. Era Gordon».