La Stampa, 27 luglio 2022
Intervista a Moises Naím
C’è una generazione che non ha mai visto l’inflazione, non sa cosa significhi vivere con i prezzi che lievitano ogni giorno. E questo crea incertezza e timore per il futuro». Moises Naím alza lo sguardo sulle dinamiche globali nel giorno in cui il Fondo Monetario avverte dei pericoli di rivolte sociali. Il politologo e autore di un libro su come gli autocrati hanno preso di mira l’agenda politica del XXI secolo («The Revenge of Power») scorge un impatto diretto sulla tenuta della democrazia, la sua crisi unita alla spirale inflazionistica è una miscela esplosiva. «C’è uno scetticismo sempre più diffuso sulle opportunità che offrono i sistemi democratici – sostiene Naím -, non generano benessere, non creano crescita e lavoro, non danno possibilità di riscatto. Sono percezioni che unite alle difficoltà di portare a casa il cibo, perché i prezzi strangolano moltissime persone, sono una combinazione devastante».
Dove queste tendenze e i rischi di rivolta sono più evidenti?
«In Africa anzitutto, la tenuta del Continente è agli sgoccioli, molti fenomeni – dal debito alla crisi alimentare – si sommano. C’è inoltre la questione climatica che provoca ondate di caldo e siccità a complicare uno scenario già precario, segnato da una crescita economia bassa e dal debito estero».
L’Fmi ritiene fondamentale tenere i prezzi stabili e per questo sostiene le politiche monetarie più rigide. Ma così, il dollaro si rafforza e il debito dei Paesi più poveri in moneta Usa diventa insolvibile. Ci sono altre strade?
«L’alternativa è il controllo dei prezzi, o la svalutazione delle monete dove si può fare. Le pressioni sui governi da parte della popolazione affinché intervengano per tenere a bada i prezzi sono assai probabili. E non solo nei Paesi in via di sviluppo. Anzi. D’altronde lo stesso Biden ha scritto una lettera ai Ceo delle compagnie energetiche per chiedere di controllare i prezzi. Certo, non è un intervento impositivo, ma un segnale. In Argentina invece i controlli sono feroci, in Egitto dove il pane è una componente fondamentale della cultura e della dieta del Paese, i prezzi sono schizzati a causa della supply chain del grano compromessa. Insomma, ovunque ci sono sacche di potenziale criticità».
La primavera araba, in fondo, aveva avuto la genesi nella crisi del grano a fine 2010. Vede uno scenario di rivolte generalizzate?
«Non vedo un piano o un’organizzazione delle proteste. C’è gente disperata, non riesce a mettere in tavola un pasto e si riversa nelle strade».
Scenario anche per l’Europa e il più ricco Occidente?
«In Europa il timore della recessione è più che altro legato alla tenuta della democrazia e alla ripresa dei cosiddetti populismi. Questa mi sembra possa intendersi come rivolta sociale».
L’Italia intanto ha perso la guida di Mario Draghi e anche a Washington si teme, pur fra mille prudenze, il riemergere dei sovranismi. Che effetti avrà?
«C’è preoccupazione e un senso di frustrazione per quanto avvenuto ed è un guaio per tutti che non ci sia più Draghi. L’Italia ha un disperato bisogno di riforme istituzionali e politiche e non vedo chi possa portarle a termine. Il suo successore sarà il prodotto di accordi precari».
Teme che prevarrà in Europa a lungo andare la cosiddetta «Ukraine fatigue», la stanchezza nel sostenere il contraccolpo della guerra, fra le cause principali di frenata della crescita e aumento dell’inflazione?
«In Italia ci sono attori che hanno simpatie per la Russia e sono pronti a negoziare. La Germania si muove a rilento. Che vi siano segnali di fatica è indubbio, ma molto dipenderà dall’inverno e da come l’Europa arriverà alla sfida con le forniture di gas e greggio ridotte. Il mercato sarà abbastanza efficiente? La distribuzione e le infrastrutture riusciranno a reggere i cambiamenti? La realtà è che bisogna allestire una nuova strategia in pochi mesi e in questo clima non è facile».
Biden è andato in Arabia Saudita per convincere Mohammed Bin Salman a immettere più greggio sui mercati nel tentativo di arginare l’ingresso dei cinesi e calmare i mercati. Missione compiuta?
«Il petrolio saudita è importante, ma qui non si tratta di pensare a cosa succederà in futuro, fra anni. La questione è hic et nunc. Si ragiona in termini di mesi, sei al massimo».
A cosa puntano i sauditi e i Paesi del Golfo?
«Riad non vuole che il prezzo del petrolio cali troppo. Ma si oppone anche a un aumento poiché questo farebbe entrare nel mercato altri provider e perderebbe quote e il ruolo dominante. Il principe Bin Salman deve rispondere alle richieste interne, ovvero mantenere un flusso di cassa che consenta di proseguire le riforme e tenere a bada la società».
Nel mirino americano resta sempre Pechino. Biden da Gedda è stato trasparente dicendo che l’America non lascerà il Medio Oriente altrimenti la Cina colmerà il vuoto. Come vede l’evolversi dei rapporti Usa-Cina?
«Quando Wendy Sherman, vice di Blinken al Dipartimento di Stato, è stata in visita a Pechino è tornata con una lettera. Erano appuntate tutte le differenze, i punti di distinguo che i cinesi volevano evidenziare. Credo che vi sia anche una seconda lettera che invece mette in risalto su quali punti le due potenze sono obbligate a collaborare».
Una relazione complessa, su più livelli…
«La Cina è un concorrente forte sui mercati globali, sulla geopolitica, sulla corsa all’innovazione, all’hi tech con tutto ciò che comporta. Ma le due capitali sono consapevoli che su alcuni temi – e metto in vetta a tutto il cambiamento climatico – sono condannate a cooperare. Il clima è una minaccia per entrambe, per lo sviluppo economico e la stabilità interna». —