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 2022  luglio 26 Martedì calendario

Bruto, l’uccisore di Cesare

Marco Giunio Bruto aveva quarantuno anni quando, assieme a Cassio e a un gruppo di congiurati, uccise Cesare (44 a.C.). E quarantatré quando, sconfitto a Filippi, si diede la morte. In realtà – come sottolinea Roberto Cristofoli nell’assai interessante Marco Giunio Bruto di imminente pubblicazione per i tipi della Salerno – a Filippi, in Macedonia, Bruto aveva sbaragliato l’esercito di Ottaviano (che Cesare nel testamento aveva nominato proprio erede). Cassio invece era stato battuto da Antonio e, credendo che Bruto avesse subito la sua stessa sorte, si era suicidato. Fu a questo punto che Bruto decise di darsi, anche lui, la morte.
Fu forse per questo non irrilevante particolare che, secondo Plutarco, Antonio dispose di avvolgere il cadavere di Bruto nel più pregiato dei suoi mantelli di porpora prima di farlo cremare. Secondo altre tradizioni, le ceneri o la testa di Bruto sarebbero stati mandati a sua madre Servilia. Svetonio riferisce, invece, che Ottaviano avrebbe fatto portare il capo di Bruto a Roma perché fosse deposto ai piedi della statua di Cesare.
Colpisce in tutti questi racconti il rispetto con cui nelle fonti antiche si parla della morte dei due cesaricidi. Soprattutto quella di Bruto. Velleio Patercolo (19 a.C.-31 d.C.) – ai tempi di Tiberio – descrisse i capi della congiura contro Cesare con parole che si potrebbero definire di ammirazione. «Cassio fu tanto migliore come soldato», scrisse, «quanto Bruto lo fu come uomo». Dei due, proseguì, «si sarebbe preferito avere Bruto come amico, mentre come nemico si sarebbe dovuto temere maggiormente Cassio». «In uno c’era più forza, nell’altro più virtù». Se avessero vinto, «Bruto sarebbe stato preferibile a Cassio nella stessa misura in cui allo Stato giovò il primato di Ottaviano piuttosto che quello di Antonio». Come se Bruto fosse stato un trait d’union ideale tra l’uomo a cui aveva tolto la vita, Cesare, e il fondatore dell’impero, Ottaviano Augusto.
Ma nell’età augustea e anche in quella successiva, gli ammiratori di Bruto – eccezion fatta, in parte, per Cremuzio Cordo – furono assai pochi. Quanti erano vicini all’ideologia imperiale, scrive Cristofoli, contestavano a Bruto e a Cassio di essere «autori di un tentativo antistorico di ritardare l’adozione a Roma della migliore tipologia di esercizio del potere: il principato». Nella Firenze medievale un colpo decisivo glielo assestò Dante, che lo collocò nel XXXIV canto dell’Inferno. In una posizione particolarmente infamante: nella bocca di Lucifero che riduceva a brandelli Giuda, traditore di Cristo, Bruto e Cassio, traditori dell’impero. Bruto – a differenza di suo zio, Catone l’Uticense, gran difensore dei valori repubblicani (presentato nella Divina Commedia come custode del Purgatorio) – non ottiene dall’Alighieri l’attenuante di essere considerato un martire che si è battuto per la libertà, concessagli, ad esempio, da Giovanni di Salisbury. Per Dante non è nient’altro che un traditore. Più generoso con lui è Giovanni Boccaccio (De casibus virorum illustrium), secondo il quale può essere addotto a giustificazione del comportamento di Bruto il principio che «nessun sacrificio è più gradito a Dio che il sangue di un tiranno».
Poi, in sostegno di Dante e contro Boccaccio, intervenne Coluccio Salutati che nel trattato De tyranno (1400) contestò la testimonianza di Cicerone che aveva accusato Cesare di inclinare, appunto verso la tirannide, dal momento che «anzi il suo governo era improntato alla giustizia». Perciò, secondo Coluccio Salutati, una congiura contro di lui non poteva essere giustificata «dal pur effettivo amore per la libertas». Tanto più che, sempre secondo Coluccio Salutati, Bruto e Cassio non ottennero altro risultato che quello di riportare Roma ai «tempi cupi delle guerre civili».
Sempre a Firenze (stavolta quella di Lorenzo de’ Medici) intervenne invece – a difesa di Bruto – Alamanno Rinuccini il quale, senza esitazioni, lo esaltò come un eroe che aveva cercato di restituire libertà alla patria. Una tesi ripresa da Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Fatta propria dal cardinale Niccolò Ridolfi, punto di riferimento a Roma degli esuli fiorentini. Ridolfi si spinse a esporre nella propria biblioteca un celebre busto di Bruto scolpito da Michelangelo intorno al 1538, all’indomani dell’uccisione di Alessandro de’ Medici ad opera del cugino Lorenzino de’ Medici.
Cristofoli considera semplificatorio e ingiusto rimproverare a Bruto e a Cassio il «sostanziale fallimento» della loro congiura. Fallimento dovuto «a una molteplicità di fattori», non certo a un eccesso di idealismo o alla supposizione che sarebbe bastato in sé l’atto di uccidere Cesare e tutto sarebbe andato per il verso giusto. Bruto, Cassio e gli altri congiurati, scrive Cristofoli, «non erano ingenui né sprovveduti, e sapevano bene quali precise precondizioni, quali indispensabili trattative e quali ineludibili interlocutori avrebbero potuto permettere loro di raggiungere il duplice obiettivo di uccidere Cesare senza pagarne le conseguenze e di tornare a partecipare a un potere non più monopolizzato da un singolo personaggio». Sapevano bene anche «che i rapporti interni ai cesariani avrebbero potuto aprire ampi margini per una soluzione incruenta alla crisi politica innescata dal cesaricidio».
Cosa andò storto, allora? Pur avendo ponderato con attenzione il loro disegno «non compresero in profondità che nell’attuarlo si sarebbero trovati a remare in direzione opposta al corso della storia». E che «sarebbe stato difficile risalire, nonostante tutto la corrente». Finirono per «nascondere a sé stessi il quadro generale, vale a dire le trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nel corso storico-sociale e sulla scena politica».
Senza parlare poi degli specifici errori che Cristofoli imputa a Bruto: un «eccessivo attendismo nella primavera del 44»; il «rarefarsi del contatto con l’aristocrazia repubblicana, una volta partito per la Grecia»; un’errata «valutazione della tempistica più proficua per lo scontro finale nel 42». Ma resta l’idea che il percorso verso l’esito di Filippi «fosse ormai in qualche modo segnato». Cesare conseguì un’ultima vittoria postuma «nel fatto che le sue estreme volontà crearono i presupposti per cui la sua morte riaprì la partita per il potere, ma solo fra i cesariani». A tutto vantaggio di colui che aveva indicato come proprio erede, Ottaviano.
A Bruto sarebbe rimasta, come compensazione, l’immagine del tirannicida disposto a pagare con la vita il suo clamoroso gesto in nome della riconquista della libertà. Il definitivo riscatto del personaggio viene nel 1599 con il Giulio Cesare di Shakespeare, che opera una sottile distinzione tra Bruto (che, anche nel momento in cui lo pugnalava, «amava» Cesare, ma «amava Roma di più») e Cassio dipinto invece come un banale sobillatore. La seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento, nota ancora Cristofoli, avevano visto e videro inoltre «il fiorire di autori di varie nazionalità (l’inglese John Milton, il cardinale italiano Roberto Bellarmino, i francesi François Hotman e Philippe Duplessis-Mornay, lo scozzese George Buchanan, il gesuita spagnolo Francisco Suarez) definiti “monarcomachi” per la loro opposizione al potere assoluto». I «monarcomachi» si spingevano al punto «di giustificare, in nome del diritto di resistenza, perfino l’eventuale uccisione di un re, se questi entrava in contrasto, in generale, con quanto era proficuo per il popolo che gli aveva delegato il potere, e, più in particolare, con la religione seguita dal popolo stesso». Ostilità che investì «specialmente» i sovrani di religione cattolica. E, quando si trattò di trovare per sé un nome di battaglia con cui firmare il fondamentale trattato Vindiciae contra tyrannos (1579), Duplessis-Mornay scelse non a caso Stephanus Junius Brutus.
Il Settecento segnò, se così si può dire, il trionfo di Bruto. Montesquieu, nel 1734, tra le pagine delle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (Bur) definì «divina» l’azione di Bruto contro Cesare perché motivata dall’amore per la patria. Anche se la giudicò poi «inutile» dal momento che non era servita a «recuperare la libertà» anche per «l’errata presupposizione dei cesaricidi per cui la Repubblica, ucciso Cesare, sarebbe tornata in vita da sé, senza bisogno di alcun piano ulteriore».
Oltralpe Bruto fu un richiamo per la Rivoluzione francese: in suo onore, alla città medievale Montfort l’Amaury venne cambiato il nome in Montfort le Brutus. Il berretto di forma conica e con la punta ripiegata che i congiurati delle Idi di marzo, dopo l’uccisione di Cesare, avevano legato all’estremità di una lancia, riesumato in Frigia, divenne in piena Rivoluzione il simbolo dei Giacobini. Napoleone quando entrò a Milano nel 1796 diede come bandiera alla Legione Lombarda un drappo a strisce verticali, verdi, bianche e rosse, con al centro una ghirlanda di quercia che conteneva il copricapo dei giacobini.
In Italia Bruto ispirò Alfieri e Leopardi. Quest’ultimo, nel Bruto Minore (1821) lo eleva a simbolo del suicidio visto sotto una luce positiva: è una forma di «motivata protesta degli animi nobili di fronte allo scacco che la realtà infligge ai loro ideali». Il Bruto leopardiano considera la sconfitta di Filippi come «una linea di confine tra le illusioni e la consapevolezza dell’inanità di esse». Dandosi la morte, Bruto compie «un’eroica protesta contro il destino che non concede alla virtù di affermarsi». Nel Bruto Minore, nota Cristofoli, l’incipit del suo lungo monologo rileva come l’«italica virtute» giacesse «nella polvere di Tracia». La sconfitta ispira all’uccisore di Cesare una riflessione sulla condizione umana: «Deciso a morire come segno di rivolta contro la natura, è irato contro gli dèi, e in particolare con Giove che sembrava tutelare solo gli empi».
Anche il Risorgimento italiano, sostiene Cristofoli, «ebbe cara la memoria di Bruto». Nel corso degli anni che precedettero l’Unità d’Italia assunsero denominazioni che si riconnettevano a quella del cesaricida alcune società segrete affiliate a quella mazziniana, come i «Fratelli di Bruto» di Celso Marzucchi a Siena. Poi nel Novecento le cose cambiarono. Il Ventennio fascista, scrive Cristofoli, segnò in Italia l’esaltazione della figura di Cesare e, per converso, la condanna di Bruto e Cassio, «visti come esponenti di un’aristocrazia parassitaria» e «come traditori dell’amicizia di un uomo che aveva illustrato la patria nel modo più alto». Dai Colloqui con Mussolini (Mondadori) di Emil Ludwig si capisce come il Duce considerasse l’uccisione di Cesare, da lui ritenuto l’autentico fondatore dell’Impero, un’autentica disgrazia per l’umanità. In un’opera teatrale scritta a quattro mani con Giovacchino Forzano, Giulio Cesare, Mussolini definì Bruto e Cassio «assassini e traditori». E si compiacque che Dante, «supremo giudice», li avesse «inchiodati negli Inferi per sempre». Ai tempi della Repubblica sociale italiana, Luigi Pareti in Passato e presente d’Italia (Casa editrice delle edizioni popolari) si spinse addirittura al punto di «stabilire un paragone tra il tradimento di Bruto e Cassio ai danni di Cesare» con quello dei congiurati del 25 luglio del 1943 che, ispirati da Dino Grandi, avevano provocato la destituzione di Mussolini.
Fa in un certo senso eccezione a questo genere di ricostruzioni in chiave fascista delle Idi di marzo del 44 a.C. il Giulio Cesare (Mondadori) del nazionalista Enrico Corradini pubblicato nel 1926. Martin L. Clarke in Bruto l’uomo che uccise Cesare (Bompiani) si sofferma sul libro di Corradini pur considerandolo un testo caratterizzato, già nella prefazione, da una «turgida enfasi che non lascia presagire nulla di buono» e, di conseguenza, un dramma «privo di ogni valore». Ad incuriosire Clarke è il fatto che Bruto sia «presentato in una luce più favorevole di quanto ci saremmo potuti aspettare». Corradini – sottolinea Clarke – «sembra considerarlo come un simbolo di una parte dell’autentica tradizione romana». E, nell’Italia repubblicana, l’ostracismo fascista cederà il (definitivamente?) passo all’immagine risorgimentale di un Bruto idealista morto in nome della libertà.