Corriere della Sera, 26 luglio 2022
Intervista a Chiara Muti
«Q uella volta mia madre, pur di far nascere anche il suo terzo figlio a Firenze, come i primi due, partì da Ravenna come una pazza, guidando la macchina mentre aveva le doglie. Si era portata appresso una cassetta di medicinali, con tanto di forbici perché, se avesse dovuto fermarsi per partorire, avrebbe potuto tagliare il cordone ombelicale... Per fortuna, però, riuscì ad arrivare in tempo utile nell’ospedale fiorentino che voleva lei, con il medico che l’aveva seguita nelle due precedenti gravidanze». La mamma di Chiara Muti, Maria Cristina Mazzavillani, è una guerriera, dovendo governare tre figli (oltre a Chiara, nata nel 1973, il primogenito Francesco e il più piccolo Domenico) e soprattutto un marito ingombrante, Riccardo Muti.
Ma perché siete nati tutti a Firenze?
«Francesco e io perché papà era legato al Maggio musicale fiorentino, ma quando è nato Domenico lui si trovava a Filadelfia, ignaro del fatto che mamma aveva appena partorito, all’epoca non esistevano i cellulari. Quando si seppe, gli orchestrali gli regalarono un peluche e lui ovviamente si commosse. È un uomo del Sud, tiene molto alla famiglia, ma per la sua professione non è stato molto presente. È un po’ lo stesso problema che abbiamo adesso mio marito pianista (David Fray, ndr) e io, rispetto alla nostra bambina Gilda, di 11 anni. Anche noi, per la nostra carriera artistica spesso in tournée, ci troviamo a dover in qualche modo giustificare le nostre assenze».
Sensi di colpa?
«Se fai qualcosa in cui credi, se segui la tua passione, i figli non possono contare le ore delle tue assenze, ma possono crescere nella consapevolezza dei sacrifici che compiono i propri genitori per ottenere il massimo. E poi Gilda già frequenta il Conservatorio di Tarbes, nel sud della Francia dove viviamo, e recentemente ha cantato a Lourdes con tutto il coro di sessanta bambini l’Ave Verum Corpus di Mozart diretta dal nonno: era in prima fila, felicissima!».
Lei, Chiara, è nata immersa nella musica, vive nella musica, però da ragazza ha scelto di frequentare una scuola di teatro: prima la Paolo Grassi di Milano, per poi approdare al Piccolo Teatro diretta da Giorgio Strehler. Ha fatto questa scelta forse per prendere le giuste distanze da suo padre?
«No... assolutamente! Sono sempre stata innamorata del teatro, perché sin da bambina frequentavo le prove delle opere dirette da papà, dal Teatro alla Scala al Covent Garden, a Salisburgo... e osservavo il lavoro dei grandi registi con cui lui lavorava e da cui ero affascinata. In fondo, non c’è grande differenza tra la parola teatrale detta e la musica suonata, sono le diverse sfaccettature della stessa cosa. Credo che il regista teatrale che ha creato il legame più luminoso, più intenso tra questi elementi sia proprio Strehler».
In che senso?
«Quando firmava le regie delle opere dove mio padre dirigeva l’orchestra, durante le prove non poteva fare a meno di mettersi dietro di lui per dirigere a sua volta i cantanti sul palco nei loro movimenti».
E suo padre?
«Sentiva dietro di sé smuovere l’aria, si girava di colpo, lo fissava e Strehler, hop, abbassava le braccia. Ma anche quando lavorava ai testi teatrali, con noi attori non si limitava a indicarci ciò che dovevamo fare, magari da lontano, seduto in sala, invece ci accompagnava, danzava con noi nella musica delle parole che dovevamo pronunciare. E attraverso questi ritmi musicali, ci faceva immaginare i personaggi, per riuscire a entrare profondamente in essi. Era un filosofo, però sapeva essere anche molto, ma molto severo, capace di violenze psicologiche che, a volte, ci portavano alle lacrime».
Severo anche papà Riccardo?
«Più severa mamma, su certe cose parecchio rigida, ma sempre in grande libertà. Lei ha quella mentalità in base alla quale se un bambino tocca il forno e si brucia, vorrà dire che la seconda volta non lo toccherà più. Noi tre fratelli, guardandoci le spalle l’uno con l’altro, abbiamo imparato a essere totalmente autonomi».
In che modo, per esempio?
«Quando ero piccola mi piaceva tanto andare al cinema. Papà mi accompagnava nella sala vicina a casa al primo spettacolo del mattino, poi mi lasciava là per andare a studiare la partitura per il suo futuro concerto. Io mi rivedevo in loop il film che adoravo fino al tardo pomeriggio, quando lui mi veniva a riprendere. Certo, erano altri tempi, più sereni, meno preoccupanti e pericolosi: io non potrei mai lasciare la mia bambina da sola al cinema per un’intera giornata... Forse anche perché siamo più iper-protettivi».
È vero che quando lei, Chiara, studiava canto in casa, suo padre si tappava le orecchie?
«Avrò avuto dieci anni, studiavo canto, ma avevo una voce non formata e lui esclamava: cosa sono questi, fischi del treno? Fu mia madre, che era diplomata in pianoforte e canto al Conservatorio di Milano, a insegnarmi come usare il diaframma: passavo notti intere a esercitarmi».
I suoi genitori sono stati contenti del suo intraprendere la carriera artistica?
«Oddio... mio padre non voleva che io cantassi. Diceva: dopo la moglie cantante ora mi tocca pure la figlia... Al di là delle battute, il fatto è che la vita del cantante lirico è allucinante, difficile, piena di incognite, alla mercé delle tue corde vocali. Comunque io ho poi intrapreso un’altra strada e quando gli comunicai che ero stata presa alla Paolo Grassi, sentenziò: “Se non riesci nel tuo intento, avrai una vita di miseria e solitudine; se invece riuscirai, sarà una vita di solitudine e lavoro”. Io mi sono resa conto di potercela fare quando, debuttando accanto alla straordinaria Valeria Moriconi ne “La madre confidente” di Marivaux, una volta sono stata assalita da un vuoto di memoria. Un momento terribile che, per un attore in scena, sembra infinito... allora, siccome la memoria in quell’attimo non mi tornava, ho cominciato a improvvisare e ho visto nei suoi occhi amore e interesse nei miei confronti. Poi Valeria mi fece i complimenti dicendo: quando hai iniziato a improvvisare, ho capito le tue potenzialità».
Ha mai avvertito o sofferto per la presenza imponente di un padre tanto famoso?
«Al contrario! Sono fiera di essere sua figlia e non mi sento schiacciata dalla sua imponenza, oltretutto io faccio un mestiere diverso dal suo. Semmai mi sento privilegiata, perché grazie a lui ho frequentato un ambiente di cultura elevata».
Lei è l’unica, dei tre figli, ad aver scelto questo mestiere...
«I miei fratelli amano molto la musica, ma non hanno voluto seguire orme familiari: uno fa l’avvocato, l’altro l’architetto. Io mi sento simile a mio padre, pur essendo donna e lui uomo... e questo fa la differenza, crea distanze indiscutibili, con pregi e difetti. Anche se in lui vedo solo i pregi, soprattutto ora con l’avanzare dell’età e con il suo modo di comprendere le situazioni. Ho forte ammirazione, è un lavoratore capace di restare piegato a studiare uno spartito che conosce a memoria, perché magari l’ha già diretto tante volte. Eppure lui ricomincia sempre da capo, direi da zero, perché è alla ricerca di una nuova interpretazione. In altri termini, Riccardo Muti non ha mai ceduto alla facilità spicciola dei cosiddetti “arrivati” e, anzi, punta a trasmettere esperienze ai giovani, proprio quello che fa con l’Orchestra Cherubini, per consegnare a loro ciò che lui ha avuto dai suoi maestri. Anche io, quando mi confronto con i ragazzi cerco di lasciare un pezzo di quello che mi ha insegnato Strehler, voglio essere un ponte di trasmissione. Il nostro lavoro si basa sull’effimero, è artigianale e deve essere svolto con tanta modestia. Mio padre nutre una profonda umiltà nei riguardi dei capolavori dei geni che porta in scena: i geni sono dei creatori, lui non si sente un creatore. Il suo intento è di far raggiungere il massimo anche da coloro che lavorano con lui: ciò che pretende dagli altri lo pretende da sé stesso. Io cerco di fare lo stesso: non voglio stupire con effetti speciali, ma portare in palcoscenico un messaggio che parli al cuore dello spettatore».
Nel prossimo novembre, al Regio di Torino, firmerà la regia del «Don Giovanni» con suo padre sul podio, e non è la prima volta...
«Sì, ma il regista della messinscena, cioè io, deve sempre fare un passo indietro, perché è la musica, è l’orchestra che comanda. Inoltre, noi, abbiamo la possibilità e la capacità di lavorare insieme da subito, ci confrontiamo, costruiamo l’opera passo dopo passo. Io posso portare il mio pensiero, senza prevaricare i contenuti che lui interpreta».
Con suo marito, pianista francese, ha mai lavorato?
«Sì, ogni tanto realizziamo dei progetti insieme. Recentemente abbiamo rappresentato un recital in Svizzera, dove abbiamo associato Dante e Bach: un accostamento tra questi due geni, che dà il senso della circolarità della visione di Dio. E devo dire che, da quando David ha imparato perfettamente l’italiano, la nostra è diventata una collaborazione più intensa. A parte il fatto che, essendo lui un appassionato di Federico Fellini, ora può godersi tutti i film non doppiati. Inoltre adesso è finalmente in grado, per esempio, di leggere Dante nella lingua originale... prima provavo a leggerglielo in francese, ma veniva fuori una vera schifezza! Nella “Divina Commedia” ci sono infatti parole che non si possono tradurre, perché altrimenti si perde la musicalità del verso».
Attrice teatrale, cinematografica e regista. In cosa vorrebbe ancora cimentarsi?
«Bè, non mi dispiacerebbe una volta tanto mettermi dietro la macchina da presa, come regista di cinema... per vedere l’effetto che fa».