la Repubblica, 26 luglio 2022
Intervista a Maurizio Cattelan. Parla della strage di via Palestro
Set solenne. Colonna sonora assoluta. Regia di Maurizio Cattelan. La musica scolpisce la memoria, domani alle 21.30, sotto il cielo di Milano, in un concerto en plein airal Cimitero Monumentale, in memoria della strage mafiosa di via Palestro del 27 luglio 1993, quando 100 chili di tritolo spezzavano il silenzio irreale di una notte afosa e semideserta al cuore di Milano. Il coro supremo del Requiem in Re minore K 626,lasciato incompiuto alla morte da Wolfgang Amadeus Mozart, nel lungo respiro dell’ ensemble vocale e strumentale la-Barocca dell’Orchestra Sinfonica di Milano, celebra il ricordo delle cinque vittime, voluto anche dal sindaco Giuseppe Sala con il supporto di A2A. Fino al 6 novembre, nelle sale del tempo sospeso dell’ex Crematorio, riposa anche Lullaby, che quest’anno Cattelan dona alla città, dittico di macerie del 1994, raccolte dal crollo del Pac – Padiglione d’arte contemporanea, in seguito all’attentato. Nessun clamore da Comedian, qui, come titolava la sua celebre banana scotchata al muro nel 2019, apice di un provocatorio gioco di specchi tra realtà e finzione che nutre da sempre la sua opera, oggi protagonista di un tour asiatico di successi, tra Cina e Corea. Qui il campo si allarga. Le luci si abbassano. La tragedia aspira alla catarsi.
Quella di via Palestro, è stata riconosciuta come strage mafiosa solo dopo decenni. Vicina alla boa dei 30 anni, è quella che forse si tende più a dimenticare, perché?
«Siamo capaci di ricordare quanto di dimenticare. Sebbene la consapevolezza che possa arrivare l’oblio ci faccia intravedere una voragine spaventosa, non sempre siamo in grado d’intervenire su questa fragilità. Solo con la cura e l’attenzione possiamo impegnarci a mantenere vivida la memoria di sofferenze che non possiamo permetterci di rimuovere».
Quali emozioni la legano a quella lunga notte?
«Ero appena arrivato a Milano. Dalla sicurezza della provincia, come una famiglia, per la prima volta mi sono sentito vulnerabile. Il Pac era un luogo significativo, a cui gli artisti aspiravano. Questo ha amplificato lo smarrimento.
Farci sentire esposti, indifesi, era questo l’obiettivo degli attentatori».
Dove si trovava?
«Abitavo non lontano da via Palestro.Ricordo sbigottimento, incredulità, una violenza che fino ad allora avevo percepito lontana. È astratta quando la vedi in tv o la leggi sui giornali, ma alle porte di casa turba moltissimo».
A un anno dalla strage, nel 1994, raccoglieva detriti dell’esplosione in discarica. Perché ricomporne i resti?
«Gli oggetti ci aiutano a ricordare.
Custodiamo scontrini o biglietti aerei per non lasciare andare ricordi felici.
Ma il passare del tempo fa sfumare i contorni, la ricorrenza perde peso. A distanza di quasi 30 anni, è doveroso celebrarne il ricordo di una strage così drammatica».
Perché imballare poi le macerie su pallet, come capsule del tempo da spedire dall’altra parte del mondo?
«Erano le prime mostre fuori dall’Italia, viaggiare aveva un valore diverso.
L’attentato è avvenuto a ridosso di quei viaggi. È emersa, immediata, l’esigenza di condividere istantanee del nostro paese, forse anche un po’ scontate, ma tristi e sincere».
“Lullaby” significa ninna nanna in inglese. Era chiara la denuncia a una società italiana avvolta nel sonno (o nel sogno). Oggi “Ninnananna” ritorna nel titolo del concerto. La società italiana si culla nel medesimo incanto di fronte ai suoi mostri?
«Dormire è l’illusione di un rifugio sospeso dove nulla di male dovrebbe accadere. Ma il sonno può essere anche più angosciante della veglia».
Perché donare l’opera alla città?
«La memoria di un evento traumatico spesso richiede una certa lontananza tra noi e l’accadimento. Da sempre l’opera appartiene a Milano, nella consistenza fisica e nel senso. Era necessaria la distanza, nel tempo e nello spazio, perché tornasse alla città e ai suoi cittadini».
La memoria, un po’ come l’arte, ha tendenza a selezionare. Ha gusto del dettaglio. Torna in mente quella foto dei Sette savi di Fausto Melotti, rimasti intatti, nel nitore e nella postura di fronte alle mura del Pac afflosciate come fogli di carta. L’arte, senza alcun timore, neppure abbassava lo sguardo. Qual è il valore e il compito della memoria nell’arte?
«Ci sono quadri e fotografie, simboli delle sofferenze più tragiche della storia, daGuernica agli scatti di Capa ai dipinti di Goya, opere legate a eventi specifici ma in grado di elevare il dolore sul piano universale. Ma l’arte non hacompiti. È solo nostra responsabilità dare valore agli eventi. I simboli poi ci aiutano a ricordarli o a esorcizzarli».
Qual è il suo rapporto con la musica e perché il coro supremo del Requiem in Re minore K 626 di Mozart?
«La musica, come suono, è sempre nei miei lavori. IlRequiem è la più profonda meditazione sulla morte. Un monito sull’essenza della vita, ciclo tanto semplice quanto indecifrabile, di cui siamo inesorabile parte».
Una “Ninnananna” en plein air, culla o risveglia Milano?
«Il luogo è unico, per ciò che ricorda e per i bellissimi lavori che racchiude. Ho sempre immaginato di attivarlo la notte, quando a molti farebbe paura. Io ne vedo la meraviglia del silenzio e la massima potenzialità di raccoglimento. Come un sogno, in cui poterci cullare ma da cui dovremo svegliarci».
Di fronte a quali mostri chiudiamo gli occhi?
«A quelli che ci rivelano senza scampo di essere peggiori di quello chepensavamo di essere».
Il Cimitero Monumentale come set per le note del Requiem di Mozart, in memoria di una strage di mafia. Carte così solenni da mozzare il respiro.
Nessuno potrà più accusarla d’irriverenza. Un po’ le dispiace?
«Lotto da anni contro quel luogo comune. L’ironia è lo strumento per celare una gravità che non desidero mostrare, almeno in prima battuta. Nei miei lavori, a vari livelli, superata la risata iniziale affiora il disturbo. In alcuni casi lo spessore di quel primo strato è solo più sottile. E la componente emotiva si fa più immediata e potente».