la Repubblica, 26 luglio 2022
Il punto di Stefano Folli
Si dice, non a torto, che nelle guerre la prima vittima sia la verità. Vale anche per le campagne elettorali, soprattutto quando tendono a dividere il campo in due parti: o di qua o di là. C’è il rischio di superare una certa soglia di asprezza polemica, oltre la quale prevale la reciproca delegittimazione.
È comprensibile che dal centrosinistra siano volate accuse di “fascismo” a Fratelli d’Italia: le contraddizioni e le zone grigie di quel partito sono evidenti.
Ma sarebbe strano e un po’ autolesionista se tutta la campagna del Pd si giocasse su questo registro.
Nelle elezioni presidenziali di maggio, Macron non si tirò indietro all’inizio quando si trattò di ricordare le ascendenze fasciste di Marine Le Pen, ma poi si dedicò a contestare gli indirizzi politici della sua avversaria, il suo essere ambigua sull’Europa, la linea populista in economia.
Si sforzò appunto di evitare la totale delegittimazione, destinata a lasciare una ferita sui meccanismi della democrazia.
La polarizzazione Pd-FdI a cui assistiamo nei primi giorni di campagna dovrebbe far tesoro dell’esperienza francese.
Tanto più che ancora nel recente passato i rapporti politici tra Letta e Giorgia Meloni erano corretti, se non proprio cordiali.
Qualcuno ricorderà che pochi mesi fa correva addirittura una voce – per la verità poco credibile – secondo cui nella nuova legislatura i due partiti avrebbero potuto, e all’occorrenza dovuto, siglare tra loro un patto per governare insieme.
Questo non accadrà di certo, ma l’impressione è che siamo solo agli esordi di un periodo ricco di sorprese. A destra la leader di FdI ha capito – senza dubbio non da oggi – che Berlusconi e Salvini sono uniti contro di lei. Per cui mettere sul tavolo, in modo perentorio, la questione della candidatura a Palazzo Chigi significa scoprire il gioco e costringere Lega e Forza Italia a ribadire le regole: dopo sarebbe tardi.
Non è ancora la minaccia di spezzare il cartello elettorale, ma quasi.
Anche nel centrosinistra s’impone una questione analoga: chi verrà indicato per guidare il governo post elettorale, sempre che i voti lo consentano? È il tema che attraversa le trattative in corso tra Pd, gruppi della sinistra (Speranza e altri) e i centristi liberal-democratici. Il “fronte repubblicano” Calenda e +Europa chiede che sia Draghi, idem Renzi.
Il Pd evita di pronunciarsi; le correnti di sinistra, che ancora faticano ad accettare la rottura coi 5S, sono contrarie. La questione non è di poco conto perché mette a fuoco i contorni della proposta politica che ci si prepara ad avanzare.
Essere favorevoli a Draghi significa abbracciare, a grandi linee, il programma liberale del governo dimissionario.
Nicchiare sul premier vuol dire invece guardare a un’ipotesi laburista, senza scontentare le varie correnti del Pd.
E significa anche altro.
Nel momento in cui Calenda, Emma Bonino e Della Vedova sono prossimi all’intesa con Letta, il richiamo a Draghi vuol dire distinguersi e fissare i contorni dell’area liberal-democratica. Anche se non è chiaro perché, se il terreno è questo, si escluda Renzi, il più “draghiano” di tutti.
Non è un caso che proprio ieri Sandro Gozi abbia rilanciato il progetto macroniano di “Renew Italia”: una casa per tutte le forze riformatrici che rifiutano “un bipolarismo vecchio e falso”. Come se i renziani dicessero ad Azione e +Europa: non alleatevi col Pd, non fatevi fagocitare. Il seguito ai prossimi giorni.