La Stampa, 26 luglio 2022
L’ultimo giorno del fascismo
Ultima settimana di luglio 1943: per la storia, sono i giorni in cui cade il fascismo. In poche ore, il “colpo di stato reale” di Vittorio Emanuele III liquida Mussolini e il Ventennio. Sarebbe naturale immaginare una resa dei conti generale, arresti illustri, violenze contro gli arroganti di ieri. Invece, la caduta degli Dei è silenziosa, anonima, incruenta. «Mai ribaltone politico è avvenuto con maggiore calma – scrive Paolo Monelli – pochi sono stati i gesti di violenza, molti sono stati solo raccontati e questo è bastato all’educato furore della folla»: secondo Giorgio Pisanò (fonte storica ufficiale del neofascismo), i morti non risultano più di dieci in tutta Italia. Nonostante i vertici militari abbiano predisposto un’articolata macchina repressiva per rispondere a una prevedibile ribellione, «il fascismo si scioglie come neve al sole» (come dirà Hitler), senza tentare una reazione, senza un sussulto, a dispetto dei 24 milioni di italiani che hanno la tessera del partito o di qualche associazione dopolavoratoristica o giovanile. Il regime si regge sul Duce e, caduto il Duce, cade con lui.
Un’altra storia, assai meno nota, racconta invece che negli ultimi giorni di luglio 1943 le piazze d’Italia si insanguinano e i morti sono 81, i feriti 564, gli arrestati 1.453, ma ad essere colpiti non sono i fascisti di ieri, bensì i militanti antifascisti di oggi, gli operai che manifestano chiedendo la pace e l’aumento dei salari, i cittadini ingenui e inconsapevoli che inneggiano al re e a Badoglio. Per capire quello che accade, bisogna ricordare che l’annuncio radiofonico del 25 luglio – «Sua Maestà ha accettato le dimissioni del cav. Benito Mussolini e ha nominato capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio» – si fonda su un equivoco: per la popolazione, che si abbandona a manifestazioni festose di piazza, significa la fine della guerra; per il sovrano e per il gruppo dirigente militare raccolto attorno a lui, significa sganciamento della corona dalle responsabilità del regime in funzione di una restaurazione monarchica. La parte finale del comunicato, quella politicamente più rilevante – «La guerra continua. L’Italia mantiene fede alla parola data» -, passa pressoché inavvertita e il giorno 26 scorre in un’atmosfera liberatoria, tra manifestazioni patriottiche di consenso.
La distanza tra i voti popolari e le scelte dei vertici emerge però il giorno successivo e non tarda a trasformarsi in contrasto aperto. Nei centri industriali del Nord e nell’area tosco-emiliana (ma anche in città del Sud come Bari) le manifestazioni proseguono in un confluire di motivazioni differenti. La richiesta della pace immediata, che funge da denominatore comune e talvolta si associa a quella di cacciata dei reparti tedeschi, si mescola a rivendicazioni di carattere salariale (aumento delle retribuzioni e delle razioni di viveri) e a richieste apertamente politiche, come l’epurazione degli elementi compromessi con il fascismo, la liberazione dei detenuti politici, l’allontanamento delle truppe poste a presidio degli edifici industriali. Sono manifestazioni che nascono all’interno delle fabbriche e nelle barriere operaie, prive di una strategia di lotta di largo respiro, espressione di un disagio complessivo dove la spontaneità prevale sull’organizzazione.
Di questo fenomeno, le autorità centrali non sanno dare una lettura adeguata: educate dal regime alla categoria della congiura come unico canone interpretativo della lotta politica, esse tendono a ricondurlo all’azione cospirativa delle forze di sinistra e a identificarlo con un progetto eversivo di ispirazione comunista. Incapace di cogliere la radice materiale e sociale delle agitazioni, il governo Badoglio risponde con la repressione militare, schierando contro i manifestanti antifascisti la stessa macchina predisposta per fronteggiare la rivolta fascista che non c’è stata.
«Agire massima energia – scrive ai prefetti il ministero degli Interni – perché agitazione non degeneri in movimento comunista o sovversivo». I militari, cui è demandato il controllo dell’ordine pubblico, ricevono una circolare in undici punti del capo di SM dell’esercito, Mario Roatta, che non lascia spazio a dubbi interpretativi: «Nella situazione attuale qualunque turbamento all’ordine costituisce tradimento e qualsiasi pietà o riguardo nella repressione costituisce delitto», recita il punto 1. E il punto 2 precisa: «Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito». Il punto 6 rincara: «Non est ammesso il tiro in aria: si tira sempre a colpire come in combattimento». Disposizioni draconiane di una classe dirigente che ha liquidato Mussolini, ma non la sua politica e i suoi riferimenti sociali.
Le conseguenze sono immediate: l’atmosfera liberatoria del 25 luglio degenera in un clima di tensione politica destinato a sua volta a sfociare in scontri drammatici. Le truppe aprono il fuoco sulla folla disarmata e già la sera del 26 si contano 11 morti. Il giorno dopo sono 27, il 28 arrivano a 43, il 29 a 10, il 30 sono 6. In totale 81. Accanto ai morti, centinaia di feriti e quasi 1.500 arresti. I prezzi più alti li pagano Milano (26 morti) e Reggio Emilia (9 morti), mentre a Torino le autorità militari sono più incisive nella prevenzione (331 arresti) ma più prudenti negli scontri: i pericoli costituiti da una massa operaia fortemente concentrata e una certa riluttanza diffusasi tra gli ufficiali subalterni e la truppa, inducono a un intervento meno rigido (solo il 29 viene aperto il fuoco alla Fiat Lingotto, con il ferimento di tre manifestanti). Il 31 luglio le manifestazioni si esauriscono e nelle fabbriche si torna a lavoro: a colpi di moschetto e di arresti, la normalizzazione “badogliana” si è imposta.
Predisposta per difendere il potere monarchico da un’ipotetica ribellione fascista, la repressione di piazza diventa così strumento di intimidazione verso le istanze popolari. In questo senso, i morti dell’ultima settimana di luglio sono un paradosso politico solo apparente: il governo Badoglio non è l’Italia della libertà, né quella del rinnovamento. È, al contrario, l’Italia di un gruppo dirigente che persegue la continuità sociale sotto vesti politiche solo apparentemente nuove, che si sgancia dal fascismo ma non dalla guerra fascista, che inizia a percorrere la strada tortuosa delle trattative con gli anglo-americani e dell’armistizio; in altre parole, è il gruppo dirigente che cerca di salvare se stesso, anche se così affonderà il Paese nella tragedia dell’8 settembre. —