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 2022  luglio 25 Lunedì calendario

Intervista a Ben Harper

«Dobbiamo parlarne», «We Need to Talk About It», dice Ben Harper nel singolo che ha anticipato il nuovo album appena uscito Bloodline Maintenance. Si riferisce senza mezzi termini alla schiavitù, ferita ancora aperta che, spiega via Zoom, troppo spesso viene data per rimarginata.
L’ammonimento del cantautore e chitarrista americano (tornato in Italia quest’estate per una lunga lista di concerti, con una seconda tranche che parte il 2 agosto da Palmanova, Udine) si aggiunge ad altri arrivati negli ultimi mesi: il rapper Kendrick Lamar proprio al live di Milano ha fatto un appello all’uguaglianza, il cantautore Fantastic Negrito nell’ultimo disco «White Jesus Black Problems» parla della sua famiglia, nata sfidando le leggi razziali, il pluripremiato ai Grammy Jon Batiste, cantautore e pianista, con la sua musica fa anche attivismo.
Ben Harper, perché parlarne ora?
«Perché ho notato una regressione: una tendenza, negli Stati Uniti e un po’ ovunque nel mondo, non solo a sminuire la gravità di quel che è accaduto, ma anche a negare che abbia un peso sul presente».
Nel brano si interroga anche sul perdono.
«Il potere del perdono che cosa ci dice di un’intera cultura, razza, classe di umanità? Perdonare un’atrocità come la schiavitù transatlantica senza alcun risarcimento è una grossa pretesa».
Nelle scuole non se ne discute abbastanza?
«Spero che i giovani studino questi argomenti più di quanto abbia fatto io: quando ero studente stavamo un paio di giorni sulla schiavitù e poi si passava ad altro. Non sta a me dire che cosa dovrebbe fare la società, ma sta a me non restarmene zitto: ho sempre reagito a quel che mi circonda. Sono felice che ci siano altri artisti che ne parlano e credo ci sia un alto livello di attenzione. Va benissimo, anche se non so quanto questo si traduca in azioni tangibili».
La politica ha delle responsabilità?
«La politica è come la Pietà: all’inizio è un gigantesco blocco di marmo, poi lo scolpisci nella speranza che diventi qualcosa di meraviglioso. Ma un conto è che sia Michelangelo ad avere martello e scalpello, un altro è che siamo tutti noi. A volte la collettività fa cose incredibili, altre volte crea bestie. La cosa più importante immagino sia non smettere mai di lottare e non essere troppo pessimisti. Io mi sveglio ottimista, solo che non sempre vado a letto ottimista».
Quali eventi recenti l’hanno particolarmente colpita?
«Dagli omicidi di George Floyd o Ahmaud Arbery fino alle più recenti decisioni della Corte Suprema che ha ribaltato la sentenza sull’aborto, passando per l’assalto al Campidoglio. Accadono così tante cose, continuamente, che il settore in cui buttarsi penso sia la psichiatria».
Gli altri artisti
Sono felice che ci siano altri artisti che ne parlano e credo ci sia un alto livello di attenzione
Addirittura?
«Credo che una delle componenti più complesse del nostro tempo sia il bombardamento di informazioni. Siamo iperstimolati, 24 ore su 24, come potremmo non avere tutti bisogno di uno psichiatra? Io potrei ritirarmi, fare un dottorato in psicologia e guadagnare il doppio di quel che guadagno adesso. Ci sono stati periodi in cui non a tutti serviva uno psichiatra. Ora se non ne hai uno viene da pensare che ci sia qualcosa che non va».
Non sarà che è anche diventato più facile parlarne?
«Certo, ma solo perché finalmente riusciamo a parlare dell’andare in terapia non significa che tutti debbano averne bisogno. Invece di questi tempi così iper-stimolati come potrebbe essere altrimenti?».
Nel nuovo disco uno dei brani si chiama «Problem Child»: è autobiografico?
«Sì, ero un bambino problematico e sono un po’ un adulto problematico. Le due cose spesso vanno a braccetto».
Che ricordi ha della sua infanzia?
«Mio padre ha avuto un forte imprinting su di me, era un percussionista e mi faceva sentire musica bellissima. Mia madre suona e spero torni ancora sul palco con me, come in passato. Sono cresciuto nel negozio di musica di famiglia, il Folk Music Center in California che ancora abbiamo, ed è stato meraviglioso. La cosa più incredibile erano le persone. Era pieno di eccentrici, ma anche veder entrare Leonard Cohen era normale».
Gli strumenti si vendono ancora?
«Sì, penso che supereranno la prova del tempo e lo dico con lo sguardo del rivenditore. Come musicista, poi, continuo ad amare chitarra, basso e batteria. Ci sono dei produttori che mi dicono “devi lasciare che ti produca io”. Adoro i nuovi sound, ma io sono quel che sono. Forse sto perdendo la hit della mia vita, ma non vorrei fare nulla di diverso».