Corriere della Sera, 25 luglio 2022
Il giorno in cui tagliarono la testa de Sade
La calda estate del 1772, esattamente duecentocinquanta anni fa, fu per Donatien-Alphonse de Sade davvero indimenticabile. Non tanto per la sua testa rotolata sotto la ghigliottina. Quella fu solo messinscena. Il resto, però, avrebbe pesato su di lui per tutta la vita. Fino alla morte nel manicomio di Charenton-le-Pont, alla confluenza fra la Senna e la Marna dove, invocando la fine dei supplizi («Il mio corpo sia messo senza alcuna cerimonia in una fossa scavata nel primo bosco fitto che si incontra. Una volta ricoperta la fossa, il terreno venga seminato di ghiande in modo che le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra come spero che la mia memoria scompaia dalla mente degli uomini», si legge nel testamento, ripreso da Gilbert Lely), fu sottoposto alla più feroce punizione che potesse colpirlo. Il divieto assoluto di possedere una penna, un po’ di inchiostro, un foglio di carta. Una tortura spaventosa.
Tutto cominciò, dicevamo, una sera verso la fine di giugno del 1772. Quando il marchese, che aveva trentadue anni, era già sposato con la figlia di un ricco esponente della magistratura reale parigina (Renée-Pélagie de Montreuil: mai vista prima, pare) e aveva già sperperato gran parte di quanto gli aveva lasciato il padre, la cui casata era imparentata con la mitica Laura del Petrarca e col ramo dei Borbone legato ai principi di Condé, decise di affidare al fedele Armand, detto «Latour», valletto e complice di giochi erotici, una missione speciale. Trovare nei bordelli di Marsiglia, dove erano scesi all’hotel des Treize Cantons, un quintetto di ragazze disponibili a una sarabanda delle sue.
Una scelta sfrontata e temeraria. Già quattro mesi dopo il matrimonio concordato nel maggio 1763 con la ricca ma mai amata Renée («Avrebbe preferito avere in moglie la sorella», scriverà Apollinaire, forse il primo a recuperare Sade dopo un secolo di damnatio memoriae, spiegando che l’amata Anne-Prospère «fu chiusa in convento, ed egli ne provò così grande dispiacere che si lasciò andare a una vita dissoluta») il marchese era stato fatto imprigionare dal Re nelle segrete di Vincennes «per oltraggiosa dissolutezza, blasfemia e profanazione dell’immagine di Cristo». Non bastasse, nel 1768, ad Arcueil, aveva sequestrato una giovane vedova che chiedeva la carità, Rose Keller, lasciandola in uno stato così penoso dopo averla violentata, frustata, seviziata, che le stesse autorità locali, nonostante l’abisso di status sociale, avevano accolto la denuncia e condannato il marchese a sette mesi di prigione. Molti, per quei tempi in cui ai nobiluomini, per quanto depravati, venivano perdonati turpitudini impensabili. Tanto più che il marchese stesso aveva ammesso d’aver frustato la donna perché era Pasqua e voleva «celebrare» la flagellazione di Cristo per poi confessarla lui stesso come un prete. Un’idea blasfema che gli aveva tirato addosso il ribrezzo di tutti. Compresi quanti partecipavano alle «festicciole» da lui organizzate.
Costretto dalla potentissima suocera ad andarsene in Provenza nel castello di famiglia a Lacoste (con la stessa moglie succuba e cinque cameriere ridotte in schiavitù, pare) Donatien-Alphonse sapeva bene di rischiare grosso, anche lì a Marsiglia. Ma così era fatto. Esagerò col fedele valletto e con le ragazze trascinate nel baccanale dando loro «pastiglie à la Richelieu», contenenti una sostanza «afrodisiaca» estratta da una sorta di coleottero. Facevano perdere la testa, riducevano le difese di quante rifiutavano certe forzature, potevano creare problemi seri. Due donne, costrette a cure mediche, lo denunciarono e riemersero le violenze del passato, comprese le accuse di sodomia col valletto punita col rogo. Il tutto, annoterà Madame de Saint-Germain, «con orrore del popolo di corte». Tutte cose vere? Un po’ vere e un po’ false? Mah...
Vistosi perso, lo scrittore scappò. A fine luglio era a Venezia, dove lo raggiunse pazza d’amore (come non bastassero i guai già incombenti) la cognata diciassettenne Anne-Prospère, destinata al convento ma già legata da una lettera di totale devozione: «Giuro al marchese de Sade, mio amante, di essere solo sua, di non sposarmi né darmi mai ad altri...». Era troppo, per la madre delle due sorelle corrotte dal genero depravato. Donna dura e ascoltata a corte, riuscì così a ottenere contro di lui una nuova «lettre de cachet» (una forma di giustizia diretta del Re) che ordinava il suo arresto. Avvenuto a dicembre in Savoia, dove era finito pensando che la sua sorte non importasse poi a Carlo Emanuele. Come poco era importata mesi prima alle autorità locali l’esecuzione della condanna a morte inflitta al marchese e al valletto, ghigliottinati in piazza ma per finta: due manichini a grandezza naturale subito buttati tra le fiamme perché non ne restasse traccia.
Fu prigione vera, da quella volta, per lo scrittore libertino. Vera e pesante. «Dall’età di 32 anni, data del suo primo internamento, fino a quella di 74, età della sua morte, Sade conobbe solo dodici anni di libertà», scrive lo storico Guy Chaussinand-Nogaret dell’École des Hautes études en sciences sociales. «Subì ogni forma arbitraria di repressione, le “lettres de cachet” dell’Ancien Regime, le prigioni quasi sempre fatali del Terrore, gli internamenti dispotici del Consolato e dell’Impero. (...) Nato per la gioia e il successo, la sua vita trascorse nell’inferno dei sotterranei e degli ospizi». E dei manicomi. Tanti. Da quello di Charenton al castello di Bicêtre, dalla Prison de Sainte-Pélagie ad altri ancora su un totale di quattordici istituti penitenziari (e di cura!) elencati tra i luoghi di detenzione.
Amava il sesso anche più violento e feroce? Sì. E i soli episodi infami di Arcueil e Marsiglia, al di là di altre orge simili e del contesto di dissoluzione dell’Ancien Régime prima della presa della Bastiglia (a proposito: era lì anche lui, coi suoi libri, fino alla settimana prima del 14 luglio), gli meritarono condanne ancora più severe di quelle subite. Ma che c’entravano con la definizione di «pazzo incurabile» e la galera a vita perfino dopo la scarcerazione dovuta all’abolizione delle «lettres de cachet» decisa dalla Rivoluzione? Se lo sono chiesti, via via, in tanti. Lui stesso, in una lettera, poco dopo l’inizio del suo calvario, scriveva: «Non potrei resistere un mese senza diventar pazzo». Lo diventò davvero? Sì, scrisse in un rapporto al famigerato ministro degli interni Joseph Fouché il prefetto Louis Dubois denunciandone una «perpetua demenza libertina». No, scrisse allo stesso Fouché lo psichiatra Antoine Royer-Collard, direttore del manicomio di Charenton: «L’audace immoralità sfortunatamente (lo) ha reso troppo celebre» ma Sade «n’est point aliené», non è affatto pazzo: «Il suo solo delirio è quello del vizio e questa non è la casa (di cura) consacrata al trattamento medico dell’alienazione dove questa specie di delirio possa essere represso». Un conflitto insanabile tra le sentenze morali e la rivendicazione della libertà spinta agli eccessi.
Fatto è che lo scrittore, scrisse anni fa Ugo Volli, non solo «fu proibito e censurato ma completamente ignorato dalla letteratura onesta» tanto da non essere citato «neanche per negarne il valore» nella monumentale Histoire de la littérature française di Des Granges e Boudout. Rimozione totale. Fino a essere relegato in un’apposita sezione chiusa, l’«Enfer», della Bibliothèque Nationale. Per esser solo a metà del Novecento «finalmente ammesso nella collezione più sacra della letteratura francese, la Pléiade di Gallimard, dove abitano Platone, Goethe, Shakespeare e Montaigne...».
Gira e rigira, lì si finisce: fino a che punto va preso alla lettera nelle sue opere più audaci se lui stesso, in Viaggio in Italia, fu scandalizzato, ad esempio, dai bassifondi di Napoli? «La sera le strade sono piene di sventurate vittime offerte alla brutalità del primo venuto. Non mento se dico che ho visto (…) bambinette di quattro o cinque anni offrirsi di soddisfare le più orribili brame. (…) Una madre vi offrirà indifferentemente quello dei suoi figli, il maschio o la femmina, che più stuzzicherà le vostre inclinazioni. Una sorella vi offrirà il fratello, un padre la figlia, un marito la moglie. Si tratta solo di pagare».
Possibile si trattasse dello stesso Marchese de Sade che immaginò i più turpi degli abissi? Mah... «Sì, sono un libertino, lo ammetto, ho disegnato tutto quello che si può concepire in questo genere; ma di certo non ho fatto tutto quello che ho disegnato e sicuramente non lo farò mai», scrisse. Un libertino sì, «ma non sono un criminale o un assassino».