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 2022  luglio 25 Lunedì calendario

Intervista ad Alessandro Siani

«Padre operaio, mamma casalinga, vivevamo in una casa dove io non avevo una mia stanzetta e per studiare andavo sul pianerottolo, sulle scale, che era pure più fresco. Ogni volta che sentivo il rumore dell’ascensore correvo via per non farmi vedere che stavo in mezzo alle scale. E ancora oggi quando sento il rumore dell’ascensore inizio a correre».
Alessandro Esposito da Napoli ha toccato le sue vette da attore con Benvenuti al Sud (30 milioni di euro di incassi) e la massima esposizione a Sanremo 2012 (presentava Morandi) con il suo monologo da 11 milioni di spettatori.
Allora aveva però già cambiato il suo cognome in onore di Giancarlo Siani, assassinato dalla camorra.
«Vivevo ai quartieri spagnoli, la notizia della sua morte rimbalzò nei telegiornali e fece rumore perché era stato ammazzato non solo un giornalista, ma soprattutto un uomo perbene. È uno dei primi ricordi pubblici che ho ben presenti. Più avanti, quando avevo 18-19 anni, non sapevo ancora se avrei fatto questo lavoro, avevo alle spalle solo qualche spettacolino amatoriale e pensai a questo omaggio. Non mi rendevo bene conto dell’impatto e della forza di una scelta del genere, ma facciamo questo lavoro anche per lasciare un segno».
Cosa l’ha spinta a mettersi al centro dell’attenzione, a salire sul palco?
«Da ragazzino ero già un comico nella mia classe, non quello che faceva le imitazioni dei professori e nemmeno il pagliaccio delle barzellette, ero un ragazzo che notava le contraddizioni che ci circondano e le trasformava in mini-monologhi. L’insegnante di religione mi propose di fare uno spettacolo per la scuola, mi disse che se facevo le prove di teatro me le scalavano dalle ore di studio. Accettai subito, anche perché io non amavo studiare, entravo a scuola solo quando mi ero proprio stufato di marinare».
L’ironia funzionava più da acceleratore per integrarsi in un gruppo o da compensazione perché si sentiva escluso?
«In realtà quando fai ridere o emozionare tu provi dentro di te delle sensazioni che sono difficilmente decifrabili confrontandoti con gli amici, con la comitiva che frequenti. Mentre loro desideravano andare in discoteca, io sentivo l’esigenza di stare fuori a parlare. La discoteca per me era chiusura, non apertura. La ricerca del comico è sempre di confrontarsi con la gente, l’aspetto delle relazioni umane è fondamentale. E oggi è più importante che mai. Il like dei social non è paragonabile a un “mi piace quello che stai facendo” detto guardandoti negli occhi; la ricerca di quel mi piace quotidiano ti spinge a fare meglio. Lo capisci piano piano e non vedi l’ora di essere abbracciato dalla gente: non è un’esigenza narcisistica, ma è quella voglia irrefrenabile che provi sul palco e sul set, un’adrenalina spontanea di cui ti nutri attraverso la gente».
I primi spettacoli?
«Facevo tanta improvvisazione, gli show duravano anche tre 0 quattro ore perché non volevo mai scendere dal palco. Con il tempo ho capito che l’improvvisazione non deve essere un elemento per colmare il vuoto di una sceneggiatura, ma deve essere un momento di estasi, di virtù. Sono partito da un localino di 80 spettatori e sono arrivato allo stadio San Paolo, con le sue 25 mila persone. Era la prima volta di un comico in uno stadio, c’era gente così confusa che chiedeva dove bisognava scavalcare per entrare».
I modelli?
«L’imprevedibilità e l’improvvisazione di Totò, il sentimento ironico di Massimo Troisi, la drammaturgia – sia comica sia drammatica – di Eduardo hanno assolutamente influenzato il mio modo di vedere la comicità. È stato strepitoso crescere con le loro invenzioni, le loro battute, le loro frasi. Io neanche lontanamente sono stato in grado di avvicinarmi alla loro grandezza, e non lo dico per umiltà ma per lucidità...».
C’è chi la accusa di assomigliare troppo a Troisi. Le dà fastidio?
«I grandi hanno lasciato un’ideologia, un pensiero, una strada, una filosofia. La mia è una instant-comicità, una comicità momentanea; certo il sogno è fare qualcosa che possa restare nel tempo, ma obiettivamente io sono il nulla in confronto a loro».
Pino Daniele è un altro mito napoletano.
«Fu lui a dirmi che mi voleva conoscere, mi invitò a casa sua e mi scrisse la colonna sonora per un film (La seconda volta non si scorda mai) senza volere soldi. Porto dentro di me le giornate con lui, i suoi racconti; ho conosciuto tutta la famiglia, sento ancora i figli; quell’atmosfera è stata formativa per la mia crescita».
«Benvenuti al Sud» fu un successo clamoroso.
«Io e Claudio (Bisio) veniamo da due scuole diverse di comicità; io rappresento la nuova scuola napoletana, con uno slang più underground; Claudio ha alle spalle l’eredità della comicità milanese di Dario Fo, Jannacci, Cochi e Renato. Quell’incontro fu un colpo di fulmine, si creò un’alchimia strepitosa, la previsione era di 4/5 milioni di incasso... Era un remake di un film francese, noi lo abbiamo cambiato nel linguaggio e poi l’abbiamo rivenduto ai francesi. Come diciamo noi, abbiamo fatto pacco, contropacco e contropaccotto».
Che set è stato?
Da Esposito a Siani
Vivevo nei quartieri spagnoli, l’assassinio
di Giancarlo Siani è uno dei miei primi ricordi pubblici. Così a 18 anni, per rendergli omaggio, scelsi il suo cognome
«Quando io iniziavo a parlare napoletano Claudio non mi capiva, rispondeva con frasi che non c’entravano nulla. Io lo seguivo a ruota e venivano dei ciak improvvisati strepitosi. Questo gioco tra noi due è stato fondamentale».
La svolta della carriera?
«Una telefonata di Lucio Presta che mi chiamò per invitarmi al Festival di Sanremo 2012; l’idea era di portare in scena i Tre Terrones, evoluzione meridionale dei Tre Tenori. Dovevamo essere io, Checco Zalone e Rocco Papaleo. Per vari impegni i Tre Terrones non si realizzarono, quindi andai da solo e usando la metafora della barca feci un monologo sull’Italia, un Paese diviso che aveva bisogno di essere unito. Quell’occasione mi diede l’opportunità di far capire al pubblico che non ero solo l’attore di Benvenuti al Sud, ma anche un comico da andare a vedere a teatro. Da lì l’asticella, la responsabilità, l’attenzione si sono alzate; da lì tutto è cambiato».
Sanremo è catalizzatore unico?
«È il palcoscenico più importante d’Italia, l’edizione del 2020, in piena pandemia ci ha lasciato una strepitosa conduzione di Amadeus e di Fiorello. Fiorello poi è strepitoso in tutte le situazioni, ma sul palco di Sanremo senza pubblico fu Maradona».
Ha fatto molti film con Christian De Sica.
«È un mito, un’icona; la prima volta che recitai con lui ebbi la sensazione del pulcino del Napoli accanto a Maradona. Siamo completamente diversi, nel camerino lui ama il freddo, io il caldo; io mangio prima di andare in scena, lui dopo. Ma ci unisce la voglia di divertire il pubblico: lui davanti a una risata del pubblico non guarda in faccia nessuno».
Ancora Maradona. Voi napoletani non riuscite a muovervi da lì?
«Per noi Maradona è un esempio di grandezza. Io ho conosciuto lui, Pino Daniele, Luciano De Crescenzo, ho capito che avevano una matrice comune: il fatto di intercettare il pensiero della gente anche tra mille contrasti e mille problemi. Maradona l’ho diretto come regista in uno spettacolo al San Carlo, prima di salire sul palco Diego era pensieroso nel camerino. Mi disse: ho paura, ho paura di deludere la gente. Lui, Maradona. Eppure il pensiero era sempre quello, la gente. Non nascondeva le sue fragilità e contemporaneamente era un gigante».
Una battuta di cui si è pentito?
«La battuta è strepitosa per un semplice motivo: tu la porgi al pubblico e il pubblico decide se è piaciuta o no. È la cosa più democratica del mondo. Se piace la tieni; se no la elimini».
Lei è un personaggio pubblico, si sente prigioniero del pubblico?
«Applico una regola semplice: se ho giornate storte, sto a casa, perché essere del pubblico significa esserlo appena esco dalla porta di casa mia. Non mi posso lamentare se qualcuno mi chiede una foto o mi registra inaspettatamente con il cellulare».
La politica che sentimenti le suscita?
«Comici. La sinistra ha la costola di Di Maio, di Calenda, di Renzi, di Santori... ha più costole il Pd di un dinosauro, e ricordiamoci che i dinosauri si sono estinti. Noi siamo cresciuti con il mito degli americani. Se c’era un problema o lo dicevi a tuo padre o al presidente americano. Erano gli unici due che potevano fare qualcosa. Oggi nei discorsi di Biden ci stanno più papere che nel lago di Garda. Questa mancanza di riferimenti è un disastro. Un riferimento però c’è: odio la parola resilienza, perché da quando la usano è tutto un disastro».
Un lusso che si è concesso?
«Comprare casa ai miei genitori: quello che avevo desiderato per me l’ho fatto prima per loro, era una spesa folle perché non sapevo se il mio domani sarebbe stato di successo. Ora sono arrivato a 27 anni di carriera ma allora non avevo la certezza di resistere così tanto. E non voglio usare la parola resilienza...».
Per i monologhisti oggi è più dura, tempi più stretti, attenzione più bassa: una foto e una battuta come insegna Osho...
Claudio e Pino
Con Bisio sul set parlavo in napoletano e lui non ci capiva nulla. Pino Daniele ha voluto conoscermi, è stato un amico vero e oggi me lo porto dentro
«Il fast-smile ormai è un processo che interessa il mondo della comicità. Penso che gli spettacoli non dovrebbero durare più di un’ora e mezza, come fanno gli americani che sono compressi, funzionali, efficaci; è questa la chiave. Nella nostra tv una volta si pensavano monologhi da 20 minuti, ora dopo 3 minuti secondo me te ne devi andare. Meglio 10 interventi da 2 minuti che 20 in una botta sola, altrimenti facciamo gli spettacoli che fanno riflettere, cioè la gente riflette e pensa: ma che so’ venuto a fare a vedere questo?».